Michelangelo Merisi detto il Caravaggio (parte settima)

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MICHELANGELO MERISI detto il CARAVAGGIO (parte settima)

Puoi leggere la sesta parte cliccando qui sotto:

Michelangelo Merisi detto il Caravaggio (parte sesta)

“Giuditta e Oloferne”, 1599

olio su tela, cm 145 x 195

Roma, Galleria Nazionale d’arte Antica (Palazzo Barberini).

La storia dell’arte ci insegna, che i soggetti più dipinti in epoca cristiana vi sono quelli tratti dai racconti della Bibbia.

Tutto questo avveniva, nei secoli precedenti, perché coloro che commissionavano le opere d’arte erano “danarosi ed alti prelati“.

Uno dei più famosi episodi biblici interpretati in ambito artistico è sicuramente la storia di “Giuditta e Oloferne“, ripreso inoltre da molti grandi pittori come Artemisia Gentileschi, che ho già precedentemente trattato.

Siamo a Betulia, città della Palestina centrale, dove abitava Giuditta, che un giorno fu presa d’assalto dalle truppe degli Assiri guidati da Oloferne.

La storia narra il modo in cui Giuditta, donna vedova, molto coraggiosa, ricca, bellissima, ma soprattutto virtuosa e timorata di Dio, profondamente amata dal popolo ebraico, riuscì a salvarlo.

La donna, ebrea, per agevolare il suo popolo escogitò uno stratagemma, che consisteva nel sedurre il condottiero Oloferne per poi ucciderlo.

Una notte Giuditta attuò il suo piano e assieme alla sua ancella si recò presso la tenda di Oloferne, portando con sé dei doni e fingendo di voler tradire il suo popolo per consegnarlo al nemico.

Oloferne accecato dalla sua bellezza le credette, la invitò al suo banchetto, bevve moltissimo e si ubriacò.

Il condottiero la invitò nelle sue stanze.

Giuditta attese pazientemente che si addormentasse per ucciderlo, tagliandogli poi la testa con due colpi di scimitarra.

Dopo averlo ucciso, mise la testa nel cesto delle vivande e tornò, vittoriosa, presso il suo popolo.

“GIUDITTA E OLOFERNE”

In questa opera, nel volto della giovane Giuditta, traspaiono emozioni di nausea e disgusto.

I soggetti vengono esaltati sullo sfondo a tinte scure della tela.

Giuditta, ha le maniche arrotolate e il corpo inarcato all’indietro per evitare che qualche schizzo di sangue possa raggiungerla e sporcarla.

Apparentemente distaccata dall’atto efferato in corso, l’espressione fissa e algida è tradita dalla tensione emotiva, leggibile anche nell’increspatura della fronte e nei capezzoli turgidi ben visibili sotto la camicetta.

La serva anziana di Giuditta intanto, osserva inorridita la scena del freddo assassinio.

Attende che Giuditta le porga la testa di Oloferne, pronta a riporla nel telo che lo tiene nervosamente tra le mani.

Oloferne evidentemente colto di sorpresa nel sonno, forse si era reso conto con orrore della morte ormai imminente.

Il volto della vittima infatti è protagonista di un’emozione stravolta mentre procede incontro alla morte.

La gola mortalmente recisa tenta di emettere un urlo, mentre con le braccia cerca disperatamente di sollevarsi per sottrarsi all’atroce fine infertagli da Giuditta.

Troneggia nell’opera il sangue rosso vivo sulla tela, mettendo in evidenza uno spettacolo d’orrore.

La ferocia della scena, che contrasta con l’elegante bellezza di Giuditta (che ha il volto della cortigiana Fillide Melandri, di cui vi ho raccontato precedentemente), è nello spasimo del corpo di Oloferne con cui Caravaggio è riuscito a rendere con eccezionale efficacia l’attimo più temuto della vita di un uomo: il momento del trapasso tra la vita e la morte.

Il gigantesco condottiero infatti non è più vivo, come indicano gli occhi rovesciati all’indietro, ma non è ancora morto dal momento che la sua bocca urla, il corpo si contrae e le mani si aggrappano al letto, da cui si è appena alzata Giuditta.

Per finire:

“Giuditta e Oloferne” e’ la prima opera in cui Caravaggio dipinge un soggetto altamente drammatico.

La precisione realistica con cui è descritta la terribile decapitazione, corretta fin nei minimi particolari dal punto di vista anatomico e fisiologico, ha fatto ipotizzare che il dipinto di Caravaggio lo abbia eseguito dopo aver assistito all’esecuzione di Beatrice Cenci (vedi foto), nobildonna romana, accusata e poi giustiziata per avere ucciso il padre in seguito a ripetute violenze e assurta al ruolo di eroina popolare.

Bruno Vergani

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