Carlo Carrà (parte seconda)

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Per leggere la parte prima clicca il link qui sotto:

Carlo Carrà “La musa metafisica” (parte prima)

CARLO CARRA’ (parte seconda)

“Pino sul mare” 1921

olio su tela, 68 x 52 cm

collezione privata

Dopo l’esperienza del “Futurismo” e della “Metafisica”, Carrà ha un fecondo terzo periodo.

Sono gli anni tra il 1915 e il 1920: il momento della svolta per l’artista. Forse il più adatto alla sua inclinazione pittorica, che lo trasporta a un intenso periodo di meditazione sull’arte italiana del ’300 e del ’400.

E il recupero in chiave moderna dei “classici”, e in primo luogo di Giotto, lo conduce a una pittura dove la natura si rivela in tutta la sua essenza spirituale.

Sintesi, spazialità, architettura accordata a colori tonali: comincia su queste basi la terza e più lunga stagione che si apre con un capolavoro assoluto della storia dell’arte del ‘900, “Pino sul mare”.

«Con questo dipinto – scrisse Carrà nella sua autobiografia – io cercavo di ricreare una rappresentazione mitica della natura».

Al capolavoro ne seguirono altri, una lunga serie di opere scaturite in gran parte da un’immersione totale nel paesaggio.

“PINO SUL MARE”

Carrà, come dicevo, aprì un nuovo ciclo nella propria produzione pittorica, di cui “Il pino sul mare”, realizzato nel 1921, è un’opera chiave.

Il quadro è caratterizzato, con colori chiari e luminosi, da un’impostazione classica, sobria ed essenziale.

Una casa, in una strana prospettiva a sinistra (di cui si vede solo una parte, con una porta al primo piano e una finestra al secondo), dà la sensazione di una presenza umana e insieme all’ombra comunica un senso di protezione.

In primo piano una spiaggia sul mare e, sulla destra, un pino marittimo dal tronco liscio e nudo, piegato dal vento verso il centro, e altri due che sorreggono una chioma sproporzionatamente piccola.

In mezzo, tra la casa e il pino, uno stenditoio che pare il cavalletto di un pittore, con un panno bianco – forse una tovaglia – steso ad asciugare.

Sul terreno, pochi ciuffi d’erba sparsi.

Sullo sfondo, un mare liscio e piatto come un lago insolitamente scuro e, al di sopra, un cielo bianco e azzurro trasparente, colto nella dolce luminosità del primo mattino.

Dietro il pino, in secondo piano, si staglia un’isola o, più probabilmente, un promontorio roccioso, con pochi cespi di stentata vegetazione (che richiama il paesaggio nudo e scabro).

Ma con una stranezza: un profondo scavo nella roccia, entro il quale si apre una porta ampia e bassa, quasi di forma quadrata, direttamente sull’acqua e proprio di fronte all’osservatore.

Un ormeggio nascosto per le imbarcazioni? Un bunker? Impossibile dirlo. Carrà non l’ha mai spiegato.

CONCLUDENDO:

Nel dipinto, come il libro “Il deserto dei Tartari” di Dino Buzzati, è presente la tensione dell’attesa, di qualcosa che deve accadere (suggerito soprattutto da quel panno steso ad asciugare, nonostante l’assoluta mancanza di figure umane) e dall’albero che fa pensare alla vita che proviene dalla terra.

Da notare, inoltre, in questo capolavoro all’apparenza semplicissimo, un senso di infinito e la sensazione di poter andare oltre il cielo e il mare.

Bruno Vergani

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