“Ù Prufissuri”

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Fu un bambino che detenne una bellezza straordinaria e desueta.

Intorno ai due anni di vita “maturò” dei ricci color del grano, lievemente carezzati da riflessi molto simili a quelli che invadono i campi rigogliosi e benedetti dalla fecondità materna.

Un paio di occhioni verde smeraldo arricchiti dalle sfumature cangianti che ricordano i vividi raggi di sole che si insinuano con prepotenza attraverso le fessure delle persiane di paese.

I suoi lineamenti erano talmente gradevoli da suscitare sovente, in chi lo osservava con grande ammirazione, la sensazione che si trattasse addirittura di una dolcissima femminuccia.

Era il 1946 ed ogni qualvolta la sua mamma si soffermava a discorrere con qualcuno per la strada veniva sistematicamente travolta da una marea di complimenti relativi al proprio pargolo:

“Quant’è beddu stu picciriddu, pari ù Bammineddu! Ci facissi fari lu pirsepiu!”

Così, quando ogni anno giungeva il tempo del Santo Natale, il piccolo veniva posto all’interno di una mangiatoia allestita alla buona, al fine di interpretare proprio la figura del tenerissimo Gesù Bambino, nel contesto di un piccolissimo ed umile presepe vivente di una chiesetta barocca.

Nel momento in cui crebbe un po’ di più e divenne impossibile continuare a vestire i sacri panni di “lu Signiruzzu”, fu sostituito da un altro neonato designato dalla “popolazione ecclesiastica”.

Ma tutti ricordavano sempre e solo lui, l’indimenticabile bambino dalle labbra pronunciate e con il mare impetuoso dentro gli occhi.

Vivace allo stremo, tant’è che sua madre non riuscì a metterlo in riga neppure sotto tortura.

Uno spirito libero sin dagli albori della successione che caratterizzò le sue primissime esperienze, un puledro scalpitante che non si lasciò mai domare da nessuno che gli ispirasse scarsa fiducia, un cavallo selvatico che non consentì ad alcuno di tirare con vigore le sue lunghe redini, tranne che in rarissime e sporadiche occasioni, nel contesto delle quali riusciva ad avere la meglio il suo spiccato e necessario buon senso.

Fortunatamente, il trascorrere del tempo forgiò la sua indole in positivo.

Dotato di grande intelligenza, amante del latino e capace di tradurre in maniera impeccabile qualunque versione gli fosse stata propinata.

Ebbe una viscerale passione, soprattutto negli anni della giovinezza, nei confronti del gioco del biliardo.

Nel periodo migliore che caratterizzò la sua adolescenza, un uomo già maturo e con una buona dose di esperienza lavorativa alle spalle gestiva, in una delle zone centrali della città, una sorta di sala giochi ben assortita.

Si trattava del Signor Cafarelli.

Il protagonista della nostra storia fu da sempre abbastanza schivo e persino molto timido, soprattutto nell’ambito che riguarda gli approcci che sanciscono le relazioni iniziali con la gente, ma quando acquisiva una certa sicurezza sapeva perfettamente come tramutarsi in un soggetto pregno di simpatia.

Un giorno di settembre gli capitò di sostare innanzi alla porta d’accesso alla saletta di Cafarelli.

La sua immotivata titubanza non gli consentì, in maniera immediata, di fare il suo ingresso tranquillo e disinvolto.

Ci pensò un bel pò, si intrattenne in lunghe passeggiate nei dintorni, si mise a riflettere sulla cosa più giusta da fare.

In conclusione, finalmente, si decise ad entrare.

All’interno trovò moltissima gente di un’età che superava di gran lunga la sua.

La maggior parte di questa si stava cimentando proprio nel gioco del biliardo.

L’allora diffidente ed oculato ragazzo sedette silenziosamente su una panca di legno, presso un angolo recondito e poco illuminato di quella stessa stanza.

Fu immediatamente attratto da quel tavolo massiccio posto al centro della sala e dal rumore netto e deciso posto in essere dalle coloratissime palle da biliardo, che venivano spostate con evidente maestria mediante l’ausilio di una lunga stecca, da coloro i quali si percepiva fossero dei grandi esperti del gioco.

” Attia, picciutteddu, ci voi pruvari?”

Uno di quei giocatori si stava rivolgendo proprio al ragazzo, invogliandolo a tentare di cimentarsi nella prova di qualche abile mossa.

“Perché no!”

Pensò tra sé e sé.

Così si alzò dal suo cantuccio e si diresse verso il tavolo da gioco.

Impugnò la stecca, fissò i birilli posti nella zona centrale del piano verde e tirò un colpo netto.

Il primo approccio alla disciplina non si rivelò affatto fallimentare e chi quel giorno si trovò all’interno della sala acquisì immediatamente una certa contezza circa il fatto che, quel quindicenne magrolino e risoluto avesse del talento da vendere.

Da quel giorno il ragazzo si recò quasi quotidianamente presso la sala giochi del Signor Cafarelli.

Divenne sempre più esperto in materia di carambola tant’è che, ad un certo punto, cominciò ad incutere una sorta di vago timore, persino all’interno della cerchia di coloro i quali lo avevano ben indirizzato ed istruito.

Nessuno desiderava competere con lui, a causa della paura di ricevere delle sonore e sistematiche batoste.

Ed in effetti fu proprio così che andarono i fatti: il ragazzo divenne imbattibile, vinse una marea di coppe che esibì con orgoglio in un angolo di casa sua e che portò con sé anche quando, parecchi anni dopo, prese in moglie la donna della sua vita.

Ma quello che era ormai divenuto un indiscusso campione di carambola serbava un sogno ben più ardito nel cassetto: avrebbe voluto insegnare le materie letterarie presso la scuola.

Frequentò le magistrali ed alternò continuamente le sue passioni ad uno studio serio, metodico e quotidiano.

Gli anni trascorsero abbastanza in fretta ed in una rovente mattinata di luglio si udì, lungo la strada incandescente, il suono perentorio dello scalpitio dei passi concitati di qualcuno che stava incedendo velocemente.

Erano quelli del ragazzo ormai diciottenne e matido di sudore il quale, spalancando la porta della sala del Signor Cafarelli, si mise ad urlare come un forsennato inarrestabile, in preda ad un incontenibile stato di implacabile felicità :

“Signor Cafarelli, mi sono diplomato!!!”

Cafarelli emise a sua volta un urlo di evidentissima gioia e, rivolgendosi a chi si trovava all’interno della stanza, proferì a gran voce ed innanzi a tutti le seguenti parole :

” Evviva, finarmenti avemu ù Prufissuri!!!”

Furono ordinati una ventina di cannoli presso lo storico “Bar 900”, uno dei locali tuttora più assortiti e frequentati dagli abitanti della città di Alcamo.

Tutti li gustarono con gran soddisfazione e nel frattempo non mancavano i ripetuti complimenti nei riguardi del ragazzo, per il raggiungimento dell’importante ed anelato traguardo.

Da quel momento in poi, il nostro diplomato divenne “ù Prufissuri” per l’intera cittadinanza.

Chiunque avesse chiesto di lui o lo avesse incontrato per la strada avrebbe usato solo ed esclusivamente quell’appellativo, ormai consolidato ed irremovibile.

“Ù Prufissuri” cominciò quasi immediatamente ad insegnare alle scuole elementari ma ben presto decise di iscriversi presso la facoltà universitaria di lettere e filosofia.

Sostenne brillantemente un bel po’ di esami, continuava a collezionare coppe e vittorie grazie alla sua amata ed imprescindibile venerazione nei confronti della carambola e la sua vita pareva essere costellata da una serie di interminabili e ripetute soddisfazioni.

Ma il destino beffardo, ahimè, è sempre in agguato.

Quando tutto sembrava proseguire verso la giusta direzione, venne a mancare il suo giovane ed amatissimo padre.

Egli gestiva uno dei migliori negozi di abbigliamento della città, insieme con la moglie e con l’ausilio di nessun altro.

Quest’ultima, in una fredda serata di novembre, prese di lato il figlio totalmente ignaro su quanto avrebbe udito da lì a breve.

Con le lacrime agli occhi gli spiegò che non sarebbe stata nelle condizioni di continuare a cavarsela da sola nella gestione dell’attività e che avrebbe avuto necessariamente bisogno del suo aiuto nell’arco dell’intera giornata.

Tutto questo avrebbe implicato l’abbandono degli studi universitari e la totale dedizione al settore commerciale.

Il ragazzo aveva pressapoco vent’anni e non riuscì a tirarsi indietro di fronte a quell’accorata e tanto sofferta richiesta da parte della madre.

Così, riponendo tutti i sogni nel cassetto, intraprese quella che sarebbe diventata la professione esclusiva per il resto della sua vita.

Qualche anno dopo, inaspettatamente e con molta naturalezza, una giovine molto carina si soffermò per qualche istante a dare uno sguardo alla vetrina del negozio.

“Ù Prufissuri” aveva ormai varcato la soglia dei 28 anni e non aveva smarrito neppure un granello di quell’avvenenza che ne sancì l’indiscutibile fascino sin dall’infanzia.

La ragazza, infatti, diede un’occhiata agli abiti in maniera alquanto repentina ed il suo interesse ricadde interamente su quel giovanotto che intravedeva da dietro le vetrate.

Lei aveva soli 18 anni e ad ogni modo non sarebbe stato affatto opportuno che una signorina prendesse spudoratamente le iniziative nei confronti di un ragazzo, almeno non a quei tempi.

Così, con un po’ di ingegno e con una certa risolutezza, tentò di stringere dei cordiali rapporti di amicizia con quella che avrebbe desiderato divenisse la futura suocera, nella speranza di riuscire a farsi notare dal soggetto che le provocava degli spasmodici sussulti al cuore.

Ed in effetti, questo escamotage si rivelò di certo molto produttivo poiché, alla madre di “lu Prufissuri” quella ragazza piacque moltissimo, sin dalle prime chiacchierate.

Invogliò il figlio a frequentarla al di fuori di quel contesto tanto ristretto anche se, questo benedetto ragazzo che deteneva il potere di far girare la testa a parecchie donne, non teneva di certo i prosciutti sugli occhi.

Anche lui l’aveva notata da tempo, ma da buon gentiluomo qual’era stava ettendendo il momento idoneo per farsi avanti nella maniera più delicata possibile.

Molto presto i due si fidanzarono e contrassero matrimonio otto anni più tardi, per l’esattezza nel 1982, qualche mese dopo il conseguimento, da parte di lei, della laurea in scienze biologiche.

Concepirono una bambina, che “lu Prufissuri” amò più di se stesso.

La protesse sempre ed incondizionatamente, con molto garbo e dalla giusta distanza, senza mai essere invadente o coercitivo.

Esaudì al meglio ogni suo desiderio materiale o che riguardasse un diverso tipo di esigenza e pose al centro della sua esistenza l’amore viscerale per il suo unico e prediletto nipotino, riccio, biondo e vivace come lui.

Fu un uomo degno di ammirazione  per 73 anni.

In una lugubre sera di marzo “lu Prufissuri” si spense inaspettatamente, come fosse stato un fragile fiammifero in balia del vento inclemente e senza remore, proiettando in una situazione di assoluto sgomento un’infinità di gente che aveva nutrito un’indiscussa stima nei suoi confronti.

“Murì ù Prufissuri, un ci pozzu pinsari, un ci pozzu cririri!”

Queste furono le espressioni maggiormente proferire da chi, un po’ per volta, apprese con mestizia lo sconvolgente accadimento.

Io rimasi così, in bilico tra l’inaccettabile e la verità , costernata da un tormento che ha l’asperrimo sapore di una mancata seppur necessaria elaborazione, soggiogata da un misto di rabbia, di amarezza e di profonda malinconia.

D’altra parte avemmo un rapporto unico e simbiotico ed obliare i pensieri che mi rimandano con costanza alla dipendenza dal ricordo costituisce un’impresa ingiusta, difficoltosa e persino impossibile.

Sì, poiché anch’io conobbi ” ù Prufissuri”.

“Ù Prufissuri si chiamava Francesco Adragna.

“Ù Prufissuri” fu mio padre…

Maria Cristina Adragna

“Mi senti, amore mio?” di Maria Cristina Adragna

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Maria Cristina Adragna
Siciliana, nasco a Palermo e risiedo ad Alcamo. Nel 2002 conseguo la Maturità Classica e nel 2007 mi laureo in Psicologia presso l'Università di Palermo. Lavoro per diverso tempo presso centri per minori a rischio in qualità di componente dell'equipe psicopedagogica e sperimento l'insegnamento presso istituti di formazione per operatori di comunità. Da sempre mi dedico alla scrittura, imprescindibile esigenza di tutta una vita. Nel 2018 pubblico la mia prima raccolta di liriche dal titolo "Aliti inversi" e nel 2019 offro un contributo all'interno del volume "Donna sacra di Sicilia", con una poesia dal titolo "La Baronessa di Carini" e un articolo, scritti interamente in lingua siciliana. Amo anche la recitazione. Mi piace definire la poesia come "summa imprescindibile ed inscindibile di vissuti significativi e di emozioni graffianti, scaturente da un processo di attenta ricerca e di introspezione". Sono Socia di Accademia Edizioni ed Eventi e Blogger di SCREPmagazine.

2 COMMENTS

  1. La migliore scrittrice che avete. Sa emozionare sia in poesia che in prosa. Complimenti alla scrittrice e a chi gestisce il blog. Avrei il piacere di sapere chi ha scelto questa donna bravissima.

  2. Grazie mille Simona, apprezzo moltissimo i suoi attestati di stima. La invito a leggere anche gli articoli degli altri blogger. Sono convinta che ne trarrà un senso di grande interesse e di gradevolezza. Buona serata

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