Quando il dialetto ti salva la vita…

126092

’Na mala sumera:

quando il dialetto ti salva la vita…

Il vernacolo agisce a mo’ di oracolo, alcune volte: come a dire «meglio soli che male accompagnati». G

ià, Giovenale, durante l’età imperiale, lamentava il malessere che sarebbe potuto capitare, proponendo soluzioni iperboliche: «ferre potes dominam saluis tot restibus ullam, Cum pateant altae caligantesque fenestrae, cum tibi uicinum se praebeat Aemilius pons?» (VI Satira).

 Trad.: «Con tutte le corde a disposizione, con tante finestre spalancate lassù da dare le vertigini e col ponte Emilio a due passi, ti senti di sopportare una moglie?».

Passiamo oltre, perché sono femminista e non misogino.

Che significa “sumera” nell’idioma lametino!?

Beh, iniziano con l’escludere risibili motivazioni storiche: non ci troviamo di fronte a Sumeri, Assiri o Babilonesi, lo dico, solo, per riderci sopra! Il termine sommier ‹somi̯é› s. m., fr. [da uno slittamento metaforico di sommier «bestia da soma» (che ha la stessa etimologia dell’ital. somaro)] sta per “letto”: «si affrettò a sistemargli alla meglio la stanzetta del sommier piccolo» (Morante).

Ne discende il carico cui la donna era chiamata unitamente alla sua funzione primaria (tutto questo prima che la voce lessicale perdesse il suo dis-valore semantico).

Anche “moglie” non se la passa meglio, etimologicamente parlando: da «mulgeo», «mungo», fa ricordare che nell’antica famiglia latina spettava al sesso femminile mungere le capre e le vacche oppure da «mulus, mulo», sicuramente per la “moles” di compiti cui era deputata, «alii vaccis ac mulis utuntur exinde ut pabuli facultas est = alcuni impiegano muli, altri vacche a seconda delle possibilità offerte dai pascoli».

Sono significati, questi, che passano inosservati di fronte a chiavi etimologiche molto più gettonate: fanno tristezza, lo so! Il nostro dialetto semplifica tutto e fa dell’espressione «’na mala sumera» «una buona a nulla» ma solamente per sottolineare la sua inattività, non certo la sua subalternità. «’A fìmmina è la rigìna da casa», sentiamo dai nostri nonni, sotto comando, nei confronti della loro matrona, ma «l’ha’ truvàri bbòna, sinnò è megljiu cà rìasti schìattu».

Beh, sto attendendo ancora…«spicatu ’un sugnu ancora, ahahah», a meno che, dando lode al lametino, che non è uno slang sessista, per par condicio, «un sugnu  propriu ’nu malu rugagnu!»…

Ai lettori l’ardua sentenza…

Francesco Polopoli

Le tre arance della discordia

Previous articleGiacomo Balla (parte quarta)
Next article“Agenda Letteraria Perpetua” di Grazia Bologna
Francesco Polopoli
Sono laureato in Lettere classiche, docente di lingua e letteratura latina e greca presso il Liceo Classico di Lamezia Terme (CZ), membro del Centro Internazionale di Studi Gioachimiti. Divulgo saggi a tema come, a solo titolo di esempio, Echi lucreziani e gioachimiti nella Primavera di Botticelli, SGF 2017, ... Ho partecipato a convegni di italianistica, in qualità di relatore, sia in Europa (es. Budapest) che in Italia (es. Cattolica di Milano). Attualmente risiedo a Lamezia Terme e da saggista amo prendermi cura dell’antico come futuro sempre possibile di buona memoria. Il mio parere sul blog? Un vascello post-catulliano ove ritrovarsi da curiosi internauti: al timone del vascello ci stanno gli autori, passeggeri sono i tanti lettori a prova di click…

1 COMMENT

LEAVE A REPLY

Please enter your comment!
Please enter your name here