Pizzo Calabro: tra misteri e realtà

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Non occorre andare molto distante dalla mia cittadina per ammirare uno dei più bei borghi marini italiani: Pizzo Calabro.

Un piccolo paese della Provincia di Vibo Valentia che si affaccia sul mar Tirreno e a seconda dei periodi dell’anno dalla piazza principale della cittadina si può ammirare un panorama mozzafiato con le isole Eolie che fanno da protagonista sullo sfondo.

Secondo gli studiosi, Pizzo fu fondata da Nepeto ai tempi dell’antica Grecia.

Si trovano notizie certe dell’esistenza di un forte militare e di un borgo a partire dal 1300.

In più si ha notizia della presenza di una comunità di monaci Basiliani.

E questo è uno dei luoghi a cui sono legata, il fascino del borgo che viene ricordato per la sua chiesetta di Piedigrotta.

A circa 1 Km dal centro storico, a pochi metri dalla riva del mare, sorge la chiesetta di Piedigrotta, massima espressione dell’arte popolare in Calabria ed esempio del genio creativo degli artisti meridionali.

Questo splendido scenario, unico nel suo genere e dai colori ambientali mutevoli è molto bello  verso il tramonto quando il sole, penetrando dalle finestrelle e illuminando le statue della chiesetta, crea con il buio della grotta un contrasto di luce-ombra.

L’ambiente della grotta è magico.

Luogo dove il silenzio è rotto solo dallo sciarbodìo del mare che sta a pochi metri.

Secondo una leggenda, un veliero napoletano stava navigando in acque calabresi e a causa di una tempesta finì contro gli scogli.

Il veliero aveva a bordo un quadro raffigurante la Madonna e il capitano della nave si rivolse a lei per invocare aiuto.

Una volta finita la tempesta, i marinai imbarcati sul veliero erano tutti salvi e si ritrovarono a ridosso di una spiaggia con il dipinto intatto.

Decisero così di creare un santuario dedicato alla Vergine dove poter conservare il quadro.

Fu così che fu edificata la Chiesetta della Grotta, un luogo dalla bellezza incredibile che presenta all’interno archi naturali, piccole grotte adibite a cappelle e delle stalagmiti che sono state scolpite come colonne e statue.

Alla fine dell’Ottocento, Angelo Barone, artista di Pizzo, ha iniziato quest’opera portata avanti ogni giorno, anno dopo anno, ingrandendo sempre di più quella che poi, nel tempo, è diventata l’attuale chiesetta, scolpendo le statue direttamente sui blocchi di tufo.

Ci ha lasciato gruppi di statue che rappresentano la vita di Gesù e dei Santi, aiutato nella sua opera dal figlio Alfonso.

La grotta si apre in tre parti, le due volte laterali e la principale, quella centrale. Arcate e pilastri sostengono la roccia tufacea, e i temi religiosi offrono da un lato la Madonna di Pompei, la vita di Gesù e il bellissimo presepe che richiama le tradizioni culturali meridionali.

In molti hanno definita la Chiesetta di Piedigrotta la massima espressione dell’arte religiosa popolare del Sud Italia e non stupisce che, con il suo fascino unico, richiami visitatori da tutto il mondo.

Le rocce tufacee di cui gli ambienti ed il pavimento sono costituiti nascondono una fitta leggenda.

Le espressioni di felicità, di infelicità, di commozione, di esaltazione che sembrano emanare dagli sguardi di queste figure è cosa incredibile e meravigliosa, specie ove si pensi che la materia non è nobile marmo ma poverissimo tufo.

Negli scritti di Ilario Tranquillo nella sua Historia Apologetica dell’antica Napizia si legge: ”Nella Marina Orientale presso al Mare, à canto i scogli, nomati Pianci, v’è una Chiesa, in un Scoglio incavata, sotto il titolo di Santa Maria di Piedigrotta, la quale tira a se i Cittadini à visitarla, e riverirla, e con tenerezza di cuore, e con devozione assai grande“.

La Chiesa per fortuna è di nuovo visitabile e vi si accede scendendo una bella scalinata.

Dopo la splendida Chiesetta di Piedigrotta, c’è un posto che visito spesso quando mi reco a Pizzo, ed è il Castello Aragonese.

Un luogo che mi affascina ogni volta che lo guardo.

A volte penso di farne parte, di averlo vissuto in qualche modo, di essere stata ad esempio una nobile del posto, ma sono solo sogni e immagini non vere, purtroppo.

Poi c’è chi per riportarmi con i piedi per terra, afferma che il fascino che ha questo borgo marinaro per me, è dato dal fatto che potrei essere stata una popolana del posto, come ad esempio la moglie di una guardia del castello o una pescivendola, visto le decine di botteghe che vi troviamo… Ahimè…

Ma il fascino esercitato dal Castello è grande.

C’è chi è pronto a metterci la mano sul fuoco, perché secondo molti, presso il Castello Aragonese di Pizzo, si aggirerebbe il fantasma di Gioacchino Murat, Generale francese, Re di Napoli molto amato dal popolo, di meno dal clero.

Di umili origini, figlio di locandieri, dopo una carriera militare diventò il braccio destro di Napoleone.

Valoroso soldato, ambizioso uomo politico, antesignano del Risorgimento, Joachim Murat-Jordy, riuscì nel giro di pochi anni a liberarsi dal suo destino ecclesiastico e a divenire, uno degli uomini più potenti d’Europa.

Napoleone lo fece governare su Napoli durante il periodo passato alla storia come il decennio francese.

Ma dopo un accordo con l’Austria e l’abbandono del comando dell’armata francese, in Russia, gli causarono le antipatie dell’imperatore.

Murat tentò allora di riconquistare il Regno di Napoli, nel frattempo finito nelle mani di Ferdinando I di Borbone, Re di Sicilia.

Ma fu sfortunato.

Salpato da Ajaccio con 250 uomini si ritrovò a Pizzo Calabro, nel territorio del nemico.

Immediatamente riconosciuto, venne catturato e imprigionato presso il Castello Aragonese e fucilato pochi giorni dopo.

«Non mirate al volto, ma al cuore. Fuoco!»…

Queste le sue ultime parole che suscitarono, secondo le testimonianze, la commozione del plotone che gli tolse la vita.

Dopo questo episodio le cronache si fanno confuse.

Il corpo dell’ex Re di Napoli sarebbe sepolto nella navata centrale della Chiesa di San Giorgio del Castello o forse nella fossa comune della città calabra.

Qualcuno sostiene che il corpo di Murat venne decapitato e la sua testa offerta al Re, ben felice di un dono macabro ma tranquillizzante, per lo scampato pericolo.

Di certo la morte violenta di Murat non venne dimenticata presto e c’è chi sostiene che l’anima tormentata del militare e regnante francese si aggiri ancora tra le mura del Castello che vide il tramonto dei suoi sogni di rivalsa.

Secondo alcune testimonianze, agghiaccianti strepiti di catene si udirebbero nella chiesa dove è custodito il suo corpo.

Apparizioni improvvise, strane illuminazioni della navata, c’è chi è pronto a giurare che lo spirito di Gioacchino Murat non abbia mai abbandonato le mura del Castello e che si aggiri ancora in cerca di riconquistare il proprio regno e la benevolenza di Napoleone Bonaparte.

“Mia cara Carolina,

l’ora fatale è stata eseguita con non poche lagrime. Io cesso di vivere in qualche supplizio: tu non avrai più sposo ed i miei figli non avranno più padre. Sovvenitevi di me. Non bandite la mia memoria. Io morirò innocente, la mia vita mi è stata tolta per un giudizio ingiusto. Addio mio Achille. Addio mia Letizia. Addio mio Luciano. Addio mia Eluisa. Mostratevi sempre degni di me. Io vi lascio sopra una terra e Regno in mezzo di innumerevoli nemici.
State sempre uniti. Mostratevi superiori alle atrocità: siate ritenuti. Prestatevi più che voi siete stati. Iddio vi benedica.
Non maledite giammai la mia memoria e sovvenitevi il gran dolore che io provo al mio momento che è quello di morire lontano dai miei figli: lontano dalla mia amica, e di non avere alcun amico che chiuder mi possa le palpebre. Addio mia Carolina. Addio miei figli. Ricevetevi la mia paterna benedizione, la mia tenera lacrima, i miei ultimi abbracci. Addio, Addio. Voi non dimenticherete mail il vostro disgraziato Padre Gioacchino.
Al Pizzo li 13 Ottobre 1815.

Murat ebbe il coraggio di confortare il sergente borbonico che gli notificava la condanna:

“Ebbene, sergente, perché piangete?”.

“Maestà, ho servito sotto di voi e adesso ho la sventura di essere stato scelto per comunicarvi la sentenza di morte…”.

“Non siete mai stato alla guerra, sergente?”.

“Sì, maestà!”.

“Avrete visto morire molti soldati. Immaginate che io sia uno di quelli. Andate da chi vi manda e dite che Murat non ha mai avuto paura della morte…”.

Dopo questo colloquio, entrò nella sua stanzetta il confessore, il canonico Masdea, che Murat aveva incontrato qualche anno prima offrendogli ben 2000 ducati per la sua parrocchia e 100 per i poveri.

Il Re avrebbe voluto evitare di confessarsi, ma fu convinto dalla sensibilità del prete che, subito dopo averlo assolto, assistette alla sua fine.

Murat venne infatti portato in un piccolo cortile del castello davanti al plotone d’esecuzione al quale comandò di non mettergli la benda sugli occhi e di togliere la sedia sulla quale, di solito, si sedevano i condannati.

I soldati erano più emozionati di lui perché conoscevano la grandezza d’animo del loro ex sovrano il quale, essendosi accorto dei loro tentennamenti, li spronò a compiere il loro dovere con queste parole:
Amici miei, il cortile è abbastanza stretto perché voi possiate mirar giusto. Mirate al cuore e rispettate il volto…”.

E dopo aver aperto con le due mani la camicia gridò di nuovo:

Attenzione. Sono io che comando: Caricate! Puntate! Fuoco!”…

Partirono solamente due colpi che non lo sfiorarono neppure di un centimetro.

Nessuna grazia, amici – disse ai soldati – Non prolungate la mia agonia. Ricominciamo. Fuoco!”.

A questo punto i soldati spararono tutti insieme e Murat cadde a terra stringendo al petto i ritratti della moglie e degli amatissimi figli.

Angela Amendola

Clicca sul link qui sotto per leggere il mio articolo precedente:

La ragazza dei tulipani

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