L’impossibile sogno: intervista “immaginaria” a Van Gogh (parte prima)

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Unico nel suo genere, da oltre un secolo Van Gogh figura tra gli artisti più quotati.

Il pittore olandese fa parte di quella ristretta schiera di grandi personaggi come Munch, Modigliani, Caravaggio, Gauguin e Schiele, la cui vita maledetta ha contribuito in maniera significativa ad alimentarne la leggenda.

Le sue opere, ne cito alcune, sono delle vere icone: “La casa gialla“, “La camera di Vincent ad Arles“, “La notte stellata” sono alcuni dipinti che tutto il mondo conosce.

È un caldo pomeriggio di giugno del 1890 nel Sud afoso della Francia, tra poco incontrerò Van Gogh ricoverato da tempo per problemi psichici, nonostante viva nel momento di maggiore desiderio creativo.

Cammino ammaliato dal paesaggio che mi circonda, con le varie tonalità di luce e colore. Ora comprendo i soggetti a lui tanto cari, dipinti con cipressi, fiori, rappresentazione di campi di grano e girasoli.

Vincent mi accoglie sorridendo sull’uscio di una stanza dove è ricoverato. La camera è decorosa ma spoglia, alle pareti due piccoli quadri dello stesso Van Gogh, che rallegrano un po’ l’ambiente. Ci sediamo su due vecchie sedie dove ha inizio la nostra piacevole chiacchierata.

Van Gogh ha un aspetto attraente. Gli occhi chiari, il viso elegante, anche se spesso caratterizzato da quello sguardo fisso, da quell’orientare la messa a fuoco in un punto che sembra stare al di là dell’orizzonte.

Ha una pipa spenta tra le labbra, la barba incolta e un cappello di paglia in testa effigiato in molti suoi autoritratti.

Mi aspettavo di conoscere un personaggio scontroso e solitario, la prima impressione invece è positiva.

Vincent è un uomo straordinario, colto, con la quale è impossibile non entrare subito in sintonia, qualità che traspare anche nei suoi singolari dipinti.

È in questa atmosfera familiare e serena che inizio l’intervista.

Bruno Vergani: signor Van Gogh, si rende conto di quello che ha combinato? Lei ha rivoluzionato l’arte…

Nulla di straordinario, trasferisco sulla tela il mio tormento attraverso pennellate aggressive, con accostamenti cromatici forti e anticonvenzionali.

Bruno Vergani: lei ha iniziato a dipingere molto tardi, a 27 anni…

Non è vero, falsità. Iniziai a colorare e disegnare da bambino nonostante le contrarietà di mio padre, pastore protestante che continuò a impartirmi delle norme severe; continuai comunque a disegnare finché non decisi di diventare un pittore vero e proprio.

Bruno Vergani: perché tra tutte le forme artistiche ha scelto la pittura?

Perché non concepisco un mondo privo di colori. Credo che in me la ricerca del colore sia un’esigenza innata. La scultura, ad esempio, non può colmare questa mia necessità, perché il marmo è bianco e con questo materiale non si possono creare tutte le sfumature cromatiche di una tavolozza. Inoltre, amo lavorare sul contrasto del chiaroscuro: parto sempre dalle tinte più scure per poi arrivare alle sfumature più chiare e luminose. Non a caso nei miei dipinti sono sempre presenti dei punti luce caldi. Soprattutto nella rappresentazione degli scenari naturali, amo immortalare – come Monet – le diverse parti del giorno, scegliendo la tavolozza e la prospettiva che più si adatta a quel momento.

Bruno Vergani: lei ha iniziato la sua attività tra l’Olanda e il Belgio e i suoi primi dipinti sono caratterizzati da colori pastosi e scuri, come “I mangiatori di patate”. Posso dirle che dai suoi primi dipinti lei dà l’impressione di trovarsi in sintonia con gli umili e in particolar modo con i contadini?

Non posso che confermare. Ero a mio agio con la classe operaia. Sentivo che i miei dipinti stavano nel cuore del popolo, in tal modo dovevo tenermi vicino alla terra, per poter afferrare la vita nella sua profondità.

Bruno Vergani: quindi l’amore per il mondo contadino è racchiuso nel suo primo capolavoro “I mangiatori di patate”, giusto?

La prego di seguirmi: con il dipinto ho voluto sottolineare come questa gente, che mangia patate a lume di lampada o zappa la terra con le stesse mani che ora protende nel piatto, si siano onestamente guadagnati il cibo. Ho voluto rendere l’idea di un modo di vivere che è del tutto diverso dal nostro di gente civile. Chi preferisce vedere i contadini con il vestito della domenica faccia pure come vuole. Personalmente sono convinto che i risultati migliori si ottengano dipingendoli in tutta la loro rozzezza. Dipingere la vita dei contadini è una cosa seria. Penso spesso che i contadini formino un mondo a parte, che da certi punti di vista è parecchio migliore del mondo civile.

Bruno Vergani: quali sono i grandi pittori del passato che rappresentano per lei fonte di ispirazione?

Non molti, cito Pissarro di cui ero molto amico, come Gauguin naturalmente, ma tra tutti ho una speciale predilezione per Millet. “Le spigolatrici” lo ritengo un capolavoro.

Bruno Vergani: la sua è una pittura veloce. Se non mi sbaglio sono circa 900 i dipinti e 1100 i disegni realizzati da lei dai 27 a 37 anni. In dieci anni è riuscito a realizzare quasi due opere in media a settimana. Cifre pazzesche…

Ho impiegato un’ora per dipingere un 90 x 70 cm di tela e due anni per finire un 40 x 30 cm. La mia pittura può realizzarsi in entrambi i modi: è l’idea alla base che regola il tempo. Più si hanno le idee chiare e prima si porta a casa il risultato. Ovviamente lasciando un ampio margine all’imprevisto che nella pittura, a mio avviso, è fondamentale.

Bruno Vergani: tratta e manipola le sue opere spingendole al loro limite estremo. C’è un sovraccarico di ansia. Come ci riesce?

Anche se non sembra, nella vita sono una persona con poco coraggio, non riesco nemmeno ad alzare la voce. Cose che mi creano disagio e quel che creo è sempre in pericolo, devo vedermela con gli incubi peggiori per spingere il cromatismo a reazioni esaltanti.

Bruno Vergani: osservando alcune sue opere si notano larghe campiture di colore percorse da linee di demarcazione forti. Come bisogna porsi davanti alla sua opera?

Con assoluta libertà, senza andare alla ricerca di ciò che ho voluto rappresentare o raccontare. Con il colore, il pennello, la spatola, le mani stesse non faccio altro che prendere tanti ingredienti, amalgamarli, confezionarli in un’immagine e consegnarla allo spettatore che avrà la facoltà di percepirla attraverso la propria sensibilità.

Non è importante che io rappresenti l’immagine di un oggetto identificabile, come ho detto in altre occasioni. Non è l’oggetto in sé. È “l’altro” che bisogna evocare, attraverso l’oggetto. A nessuno deve interessare l’aneddotica delle mie opere, perché non è questa la sostanza.

Bruno Vergani: qual è il suo soggetto preferito?

Bella domanda. Non ho un vero soggetto preferito. Forse il vero soggetto che non deve mancare, qualunque sia il luogo, è la luce. Poi io non mi immedesimo nella natura ma è lei che si modella al mio pensiero, fino a subirne le mie deformazioni.

Bruno Vergani

Clicca sul link qui sotto per leggere il mio articolo precedente:

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