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Bruno Vergani: signor Van Gogh, lei preferisce la natura morta o il paesaggio dal vivo?
Per me la natura non è mai morta: se può esprimersi, sarà sempre viva.
Bruno Vergani: il giallo è il suo colore prediletto.
Adoro il giallo cadmio, il giallo cromo e l’ocra gialla. Le spiego il motivo: il giallo è l’equivalente della luce e dell’amore. Per me il sole non brilla mai abbastanza, vorrei ce ne fossero due aureolati di irradiazioni. Il giallo nella mia mente lo ritrovo ovunque: paglierino nei campi di grano, nei limoni, nei muri degli edifici…
Bruno Vergani: la notte invece cosa rappresenta per lei?
La creazione, il rimanere soli con se stessi e avere una visione più completa della realtà.
Spesso ho l’impressione che la notte sia molto più viva e riccamente colorata del giorno.
Quando guardo le stelle sopra la mia testa o il canto dell’alba, mi parlano di poesia, di aspetti insondabili, e penso a tutti gli altri che stanno dormendo. È più facile concentrarsi di notte, c’è meno confusione e più intimità mentale.
Bruno Vergani: signor Vincent, lei ha lottato duramente per realizzare opere ammirate in tutto il mondo. Secondo lei, ci è riuscito?
Non lo so. Ma verrà il giorno in cui si vedrà che valgono più del prezzo del colore e della vita, anche se molto misera, che ci ho rimesso. Credo verrà il giorno in cui si venderanno le mie opere. In questo momento cosa vuole che le dica?
Bruno Vergani: so che lei soffre di forti depressioni, è la verità?
Sì, è la verità. Soffro di disturbi mentali, ora sono ricoverato per problemi psichiatrici. L’unica cosa che mi fa sentire meglio è dipingere.
Bruno Vergani: quale è stata l’opera che ha dipinto con più tristezza?
Sicuramente “Notte Stellata”. In questa scena, ho cercato il contatto diretto con la realtà, ho dipinto quello che vedevo dalla finestra della mia stanza, nel manicomio di Saint Remy. A sinistra, la scena l’ho chiusa da un alto cipresso che si scaglia contro il cielo notturno, agisce come un intermediario tra la terra e il cielo. A destra, invece, ho dipinto una ricca vegetazione di ulivi. Volevo proporre degli accenti di solitudine di un animo smarrito e allucinato. La raffigurazione del cielo insieme ai bagliori vibranti e infuocati delinea il sentimento di fragilità tra me e questo mondo.
Bruno Vergani: quale definizione si darebbe signor Van Gogh?
Un artista sincero. Quello che più di altri ha fatto della sua pittura una necessità e che gronda anima ed emozione oltre che colore: io non descrivo ma interpreto, non dipingo la realtà ma quello che sento della realtà, ricercando la sua verità.
Bruno Vergani: Il primo ad accorgersi della sua statura artista fu suo fratello Theo.
Mio fratello mi aiutò molto anche dal punto di vista finanziario… Quando, ancora oggi, ricevo dei soldi da Theo, il mio più grande desiderio, avendo digiunato, è il cibo, anche se la voglia di dipingere è più grande. Tutto ciò di cui bramo al mattino appena sveglio è la colazione, una tazza di caffè o latte con del pane di segale.
Bruno Vergani: non sappiamo quasi nulla sulla sua vita sentimentale…
Sarò molto conciso, non mi va di parlarne perché la mia vita amorosa è stata tutt’altro che facile. L’amore che provavo per la cugina Kee Vos non era corrisposto e il mio rapporto con la vicina di casa Margot Begemann non è durato a lungo. Durante il soggiorno all’Aia ho convissuto con l’ex prostituta Sien Hoornik e i suoi due figli. Sien non solo ha avuto un impatto sulla mia vita, ma anche sul mio lavoro poiché sono stati spesso i miei modelli. A causa di pressioni familiari, per colpa del padre, ho rotto il rapporto con Sien. Mi sono innamorato poi solo un’altra volta: Agostina Segatori, proprietaria del caffè Le Tambourin a Parigi, dove ho esposto mie opere. Tuttavia, anche questo rapporto è finito prima che partissi per il Sud della Francia.
Bruno Vergani: come è maturata l’idea circa il ritratto del dottor Gachet?
Devo moltissimo a lui. Il mio grande problema era che bevevo tantissimo: mi ubriacavo continuamente con l’assenzio. Quando sono stato ricoverato nell’ospedale di Saint-Rémy, ho incontrato questo medico che mi ha preso particolarmente a cuore convincendomi a smettere di bere, e da quel momento la mia salute è migliorata tantissimo. Il ritratto lo dipinsi velocemente: Paul Gachet era un medico artista lui stesso, per quanto dilettante. Soffriva di depressioni ed era molto malinconico. Mi son fatta l’idea che quella malinconia mi avrebbe ispirato. Mi diede l’impressione però che a lui il ritratto non piacque.
Bruno Vergani: e quella notte del 23 dicembre 1888 in cui si tagliò l’orecchio? Lo sa che dopo 130 anni non abbiamo ancora scoperto la verità?
È il risultato di una discussione che ho avuto con Gauguin in un momento in cui entrambi eravamo ubriachi fradici. Ma gli scontri erano ormai continui, nonostante la stima che avevamo l’uno per l’altro. La convivenza con lui ad Arles era diventata impossibile. Gauguin decise di partire e io, in un attimo di rabbia, mi tagliai con un rasoio l’orecchio.
Bruno Vergani: quale definizione si darebbe signor Van Gogh?
Un artista sincero, libero. Quello che più di altri ha fatto della sua pittura una necessità e che gronda anima ed emozione oltre che colore: io non descrivo ma interpreto, non dipingo la realtà ma quello che sento della realtà, ricercando la sua verità.
Bruno Vergani: è interessante che lei abbia una visione della natura come se fosse formata da dettagli e di come ne sia rapito. Le farebbe piacere spiegarci perché predilige la natura alla figura umana?
Lei è male informato: ho dipinto molte figure, soprattutto femminili. Oh, la natura, essa mi sorprende sempre. Una luce d’alba è in grado di cambiarmi l’umore. In questi anni poi il modo di dipingere così come di comporre sta cambiando: non è più meramente descrittivo, ma noi artisti siamo spinti a riproporre quello che vediamo.
Bruno Vergani: ho avuto l’onore di osservare alcuni suoi quadri dal vero, a quanto li vende?
Guardi, lei sarebbe il primo a desiderarne uno: li creo solo come fossero una terapia. Il dottor Gaghet è sempre interessato e ritiene che sia un buon esercizio per esprimere ciò che provo. Inoltre, mi capita di scambiarli con il materiale per crearne altri.
Bruno Vergani: vedo che ha con sé il suo cavalletto con una grande tela, mi vuole raccontare il suo prossimo quadro?
Un campo di grano con corvi. Sarà il mio ultimo dipinto prima di suicidarmi…
Lo saluto sconcertato e con molti interrogativi: non sapremo mai quali demoni o disturbi torturassero Van Gogh fino alla depressione o cosa abbia causato quell’ansia paralizzante che lo ha portato al manicomio dove nel frattempo ha creato le sue opere più belle e famose.
Forse Van Gogh provava un grande amore per il mondo. Era però incapace di comunicarlo alla gente esprimendo i suoi sentimenti solo attraverso il lavoro.
L’innovazione e la modernità, che ritroviamo nei sui quadri, da noi non compresa, ci fanno capire che lui dipingeva per noi, per il futuro.
Bruno Vergani
[…] L’impossibile sogno: intervista “immaginaria” a Van Gogh (seconda e ultima parte) […]