Nel corso del Novecento un tema dibattuto da alcuni filosofi ha riguardato il rapporto tra etica e politica, rapporto che era apparso diviso da Machiavelli in poi. Questa esigenza nasce dalla complessità della società contemporanea e dai problemi che la attraversano.
Primo fra tutti il problema della giustizia sociale che non è tale quando il cittadino sente che le scelte etiche che lo riguardano sono diverse da quelle che riguardano l’etica pubblica.
Ciò si avverte soprattutto da quando lo stato del benessere (welfare state) è andato in crisi non riuscendo a garantire elementi fondamentali come la casa, il lavoro, forme di assistenza, ecc. Di fronte a ciò, l’intervento dello stato si è mostrato soprattutto nelle forme dell’assistenzialismo, erogando risorse a pioggia, aumentando la burocrazia, frustrando la libera iniziativa, spegnendo le motivazioni.
Un altro aspetto che rende complicata la società è la presenza di un eccessivo pluralismo e frammentazione che fa emergere interessi diversi, spesso contrastanti e che fa vivere alla parte esclusa da un eventuale beneficio una condizione vittimistica e di disagio.
Altro elemento che non riguarda l’ambito familiare o sociale ma tutto il pianeta è il dissesto ecologico che chiama in causa meccanismi di sfruttamento e di dissesto provocati spesso dallo sviluppo di tecnologie che mettono in evidenza l’ingegno umano e nello stesso tempo sono viste come causa di disastri.
Di questo tema si è occupato soprattutto Hans Jonas, filosofo che ha indicato i rischi possibili per l’intera umanità, se non dovessero cambiare le cose.
Oggi però, mi soffermo sulla riflessione che riguarda la società. In questo ambito assistiamo al ritorno ad un’antica filosofia, quella aristotelica.
Aristotele aveva diviso le scienze in tre parti: teoretica che comprende metafisica, fisica e matematica; poietica che si occupa della produzione di oggetti ed opere; pratica che riguarda etica e politica, interessa cioè l’azione, l’agire dell’uomo.
Le scienze pratiche non possono, per Aristotele, raggiungere il grado di certezza della matematica ma possono produrre dimostrazioni e sono quindi anch’esse scienze.
È proprio alle scienze pratiche che guardano i filosofi, tra questi Hannah Arendt (1906 -1975) che ha ripreso il concetto di prassi distinguendolo da quello poietico.
Per la Arendt, l’uomo è animale politico, così come lo considerava Aristotele e l’uomo è capace di discorso e di azione; nota la filosofa che chi non era della polis era considerato inidoneo a partecipare alla vita di questa poiché incapace di comprendere fino in fondo i modi propri del discorrere dei cittadini della polis.
L’azione, come il discorso, è caratteristica della vita umana e va distinta dal lavoro e dalla produzione di oggetti che servono per vivere. Per Arendt inoltre, l’uomo può anche vivere senza lavorare e senza produrre oggetti, ma per vivere bene ha bisogno dell’agire e del discorso.
<<Con la parola e con l’agire ci inseriamo nel mondo umano, e questo inserimento è come una seconda nascita, in cui confermiamo e ci sobbarchiamo la nuda realtà della nostra apparenza fisica originale. Questo inserimento non ci viene imposto dalla necessità, come il lavoro, e non ci è suggerito dall’utilità, come l’operare […] Agire, nel senso più generale, significa prendere un’iniziativa, iniziare, mettere in movimento qualcosa >>.
Nell’azione, quindi, realizziamo la libertà e con il discorso la riveliamo. L’agire politico, nell’età moderna, richiede una larga partecipazione dei cittadini a scelte politiche e il confronto deve essere con discorsi volti a spiegare e persuadere, non ad usare violenza e imporre costrizioni nei rapporti sociali.
Sull’importanza del discorso in politica si sofferma anche Jünger Habermas (1929) che parlerà di “agire comunicativo”. Habermas si rivolge ad un altro filosofo, I. Kant, in cui ricerca i principi dell’agire morale poiché per lui in politica non dovrebbe prevalere ciò che il gruppo più forte vuole, ma ciò che serve alle persone interessate. Perché ciò avvenga, il discorso deve avere comprensibilità, verità, veridicità e correttezza.
Per Habermas si dovrebbe realizzare la “situazione discorsiva ideale” che richiede ai partecipanti alla discussione il rispetto di regole logiche che assumono valore etico. Nella discussione non si deve riconoscere solo il valore dell’argomentazione ma anche il valore delle persone che vi partecipano, queste devono essere poste su un piano di uguaglianza e parità. Solo così il discorso è puro, privo di zone opache o di distorsioni.
Non sempre è facile che si crei tale situazione, molte volte manca qualcuno degli elementi di una situazione discorsiva ideale, questa, però, deve essere un fine verso cui tendere, deve rimanere come principio regolativo nella realtà esistente.
I filosofi mettono giustamente l’accento sul discorso, sul linguaggio che dovrebbe usare la politica. La realtà è diversa, mai come oggi il linguaggio dei politici è fumoso, confondente o inconcludente, per chi pretende di parlare con cognizione di causa.
È invece propaganda per gli allocchi quella di chi pronuncia slogan o ripete come una lezione imparata a memoria quello che il capo ha deciso si debba dire.
Circola una profonda invidia per i pochi migliori che vengono emarginati in politica e nella vita perché non oscurino i mediocri che, senza accorgersene hanno decretato la morte del congiuntivo, e del condizionale, per loro è sempre e solo presente, non sanno cosa sia la consecutio temporum o il significato delle parole che usano.
Insisto sul discorso, sì! Quello di cui parlano i filosofi che sanno che logos è parola ma è anche ragione. Il discorso è un’argomentazione logica e, come sostengono Arendt e Habermas, con i discorsi si fa politica, con le azioni si costruisce il futuro, questo oggi manca.
Dovrà arrivare il tempo in cui i politici vorranno il bene della società a loro affidata e non faranno solo ciò che serve per avere un voto in più.
Gabriella Colistra
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