Il treno dei bambini

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Il treno dei bambini” è un romanzo scritto da Viola Ardone -professoressa di latino e italiano al liceo – e pubblicato nel 2019 dalla casa editrice Einaudi.

È il 1946 quando Amerigo lascia il suo rione di Napoli e sale su un treno. Assieme a migliaia di altri bambini meridionali attraverserà l’intera penisola e trascorrerà alcuni mesi in una famiglia del Nord; un’iniziativa del Partito comunista per strappare i piccoli alla miseria dopo l’ultimo conflitto. Con lo stupore dei suoi sette anni e il piglio furbo di un bambino dei vicoli, Amerigo ci mostra un’Italia che si rialza dalla guerra come se la vedessimo per la prima volta. E ci affida la storia commovente di una separazione. Quel dolore originario cui non ci si può sottrarre, perché non c’è altro modo per crescere.

“Chi ti manda via ti vuole bene? – Amerí, a volte ti ama di più chi ti lascia andare che chi intrattiene.”

“Io pure sono ignorante, anche se dentro al vicolo mi chiamano Nobèl perché so un sacco di cose, nonostante che a scuola non ci sono piú voluto andare. Imparo in mezzo alla via: vado girando, sento le storie, mi faccio i fatti degli altri. Nessuno nasce imparato.”

 “Wow, davvero stupendo! Non mi aspettavo fosse così bello!” sono le uniche parole dette dopo un’intera e intensa giornata dedicata a divorare questo capolavoro: “Il treno dei bambini”.

Sono letteralmente rimasta senza parole, completamente immersa nella storia del piccolo Amerigo, un bambino che vive assieme alla madre Antonietta in un rione di Napoli e che, per riuscire a far guadagnare un po’ di soldi, raccoglie pezze usate poi cucite e vendute al mercato.

L’autrice mi ha particolarmente colpita per via del linguaggio utilizzato all’interno del libro (quotidiano, dialettale e molto semplice, con frasi brevi e sgrammaticate che però rappresentano appieno la familiarità e la praticità del parlato popolare), che lo ha reso parecchio scorrevole, leggero e per nulla pesante.

Ho inoltre trovato parecchio curioso come Amerigo, per passare il tempo, osservava le scarpe delle persone, e ad ogni paio attribuiva dei punti a seconda del grado di usura (Scarpa sana: un punto; scarpa bucata: perdo un punto. Senza scarpe: zero punti. Scarpe nuove: stella premio): se fosse riuscito a contare fino a “dieci volte dieci”, allora sarebbe accaduto qualcosa di bello.

Questa storia mostra come la “so-li-da-rie-tà” possa fare la differenza: le famiglie del nord, infatti, hanno accolto tutti quei bambini del Sud come se fossero i propri, offrendogli del buon cibo, una casa e un’istruzione, facendogli trovare le proprie passioni e aiutandoli affinché potessero avere un futuro e crescere lontano dalla miseria. È una delle pagine di storia più belle, ma purtroppo solo in pochi la conoscono: è simbolo di fraternità e di unione per l’Italia che, afflitta dalla guerra, si rialza pian piano, attraverso piccoli ma grandi gesti.

Quei treni che prima facevano tanta paura ora sono diventati l’emblema della rinascita: non si è più diretti verso l’inferno, ma verso un posto sicuro che tutti possono chiamare “casa”.

Il libro, diviso in quattro parti, si conclude nel 1994 con un Amerigo ormai divenuto un uomo di mezza età, malinconico, pieno di risentimenti e con un vuoto incolmabile nella sua vita: tornato al Sud, infatti, la madre, che sembra non capirlo e riconoscerlo più, ha venduto il violino regalatogli dal padre che lo ha accolto e aiutato fin da subito.

Il bambino, resosi conto del profondo divario di incomprensione tra lui e la madre Antonietta, decide di “tagliare i ponti” con lei e di ritornare a vivere felicemente con la sua famiglia del nord, lontano dalla severità, dalle restrizioni e da una vita di stenti.

Quando però da adulto cerca di ricostruire il rapporto, ormai è troppo tardi: purtroppo, dopo aver aspettato per anni il figlio per farsi perdonare, se ne è andata così, nel sonno, con una genovese (amata da Amerigo) a riposare sul fornello e con la speranza di rivederlo almeno un’ultima volta.

«Siamo di nuovo sul marciapiede e mi torna in mente l’odore di Derna, quando alla fermata della corriera per Modena mi accolse nel suo cappotto. E ho paura. La mia mano, che fino a ora era stata abile solo nel manovrare l’archetto di un violino, può essere uno strumento capace di consolare e dare forza. È un potere così grande che non sono sicuro di saperlo usare. La mano che tiene stretta quella del bambino si sente a un tratto debole. Ha appena fatto una promessa che non è in grado di mantenere.»

«C’è molto tempo davanti a me, ma non ho fretta, il viaggio più lungo l’ho già fatto: ho dovuto percorrere a ritroso tutta la strada fino a te, mamma.»

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