I Jhauni

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Fanno gola solo a guardarli, così ben fritti, ricoperti di zucchero a velo, si pavoneggiano sulla tavola di Natale dei vibonesi. Il nome di questi fagottini golosi, come la ricetta, è di chiara origine araba, lo si evince dalla acca aspirata nella pronuncia, sono i Jhauni.

Li faceva mia nonna e prima di lei, anche la mia bisnonna e così, mentre mia madre li prepara, decido di fare qualche domanda! La tradizione vuole che vengano consumati dalla mattina del 23 dicembre, al ritorno dalla Novena di Natale e non è difficile comprenderne le ragioni.

La preparazione richiede diverse fasi di lavoro ma quello che mi preme è raccontare di quando, prima, durante e dopo l’ultimo conflitto bellico, tutte le famiglie, quasi tutte, o almeno quelle che erano riuscite a racimolare il denaro, per acquistare gli ingredienti, si accingevano a preparare questa delizia!

Il 21 dicembre si preparava il ripieno, macinando i ceci bolliti, confusi nella loro identità dal cacao amaro, il liquore dolce, la frutta secca e lo zucchero.

Quando questo primo impasto era pronto doveva stare a riposo per un’intera notte ma nessuna casa era dotato di frigorifero, per cui si conservava nella vetrina, quella del servizio buono. Intorno al mobile che custodiva il recipiente con la “cicerata”, si creava la fila, un passaggio continuo di ragazzini affamati, di cucchiai e di dita, quando non volevano farsi scoprire. A volte però, a causa della mancata refrigerazione, l’impasto andava a male e diventava inutilizzabile. Il giorno successivo, considerando che il ripieno fosse utilizzabile, si preparava la sfoglia con farina, uova e l’acqua di cottura dei ceci.

Ho davanti agli occhi le mani di mia nonna che prima, con la forchetta, mescolava insieme le uova e l’acqua dei ceci, sul tavolo, con intorno la farina disposta a fontana, poi, lasciata la forchetta, impastava, finchè il composto non era diventato liscio ed omogeneo.

Con il matterello, tirava la sfoglia e con l’ausilio di un piattino, si ritagliavano tanti cerchi perfetti. Ritornava in campo la “cicerata” che riempiva i jhauni.

Alle dieci di sera, tutto si trasferiva negli orti, di cui tutte le case basse erano dotate e l’aria diventava di colpo, calda e profumata. Le madri di famiglia si aiutavano tra di loro e si scambiavano i primi dolci usciti caldi dalle padelle.

Si friggeva per tutta la notte e, dopo aver spolverato abbondante zucchero macinato a mano e riposto tutto nelle ceste, le donne si davano una sistemata, giusto per non sapere di frittura ed uscivano per andare a messa.

Chiaro che, dopo questo tour de force, gli stomaci, i pensieri, le papille gustative, erano orientate verso le ceste, dove aspettavano, profumando l’aria di casa, i jhauni!

Pensate che chi non li aveva fatti per ristrettezze economiche, non li avrebbe assaggiati? Sbagliato!

Iniziava prima di andare a letto, la gara di solidarietà e i piatti ricolmi, passavano di mano in mano, vivendo in pieno lo spirito del Natale!

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