Una passione triste

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Il filosofo olandese Baruch Spinoza (1632 – 1677) scrisse Etica, un’opera pubblicata postuma nel 1677, in cui tra proposizioni, dimostrazioni, scoli fornisce una poderosa riflessione sull’uomo e sui suoi comportamenti. Scrive molto delle passioni che secondo lui sono caratterizzate da letizia o tristezza. Tra le passioni tristi troviamo l’invidia, così scrive dell’invidioso: <<Per l’invidioso nulla è più gradito dell’infelicità altrui, e nulla è più molesto dell’altrui felicità>>.

La parola invidia viene dal latino in – videre che significa guardare male, biecamente. Per definizione l’invidia è un sentimento spiacevole che si prova per un bene o una qualità altrui che si vorrebbero per sé, accompagnato da rancore o avversione per colui che possiede tale bene o qualità.

L’invidia, dunque, è la passione triste che non solo desidera il male dell’altro, desidera anche ciò che l’altro possiede: una bella famiglia, una vita serena, un lavoro sicuro, un amore sincero, ecc.  Li desidera, ma non fa nulla per realizzarli da sé, ha dentro un tarlo che corrode il suo animo e che forse maschera dietro un falso sorriso quando incontra l’altro.

L’invidia è uno dei sentimenti più diffusi tra gli uomini ed è presente fin da tempi remoti. Già nella Bibbia incontriamo Caino che, invidioso del fratello Abele ritenuto più amato da Dio, lo uccise. Caino fu allontanato dalla sua terra e diede, comunque, inizio ad una discendenza.

 E’ da lì che provengono gli invidiosi?

Troviamo l’invidia anche sul monte Olimpo: gli dei sono invidiosi tra loro e soprattutto sono invidiosi degli eroi che potrebbero, con le loro gesta, oscurare lo splendore della divinità.

Più tardi nel tempo, la Chiesa inserì l’invidia tra i vizi capitali e Dante, nella Divina Commedia, collocò gli invidiosi nella seconda cornice del Purgatorio. Gli invidiosi sono ammassati contro il muro, non vedono perché hanno gli occhi chiusi, cuciti con il fil di ferro.

Mi sono chiesta come mai li abbia posti nel Purgatorio, non so rispondere ma voglio immaginare che li abbia posti lì e non abbia pensato per loro ad una pena eterna perché, in fondo, l’invidioso trascorre un’esistenza infelice, il livore che ha dentro non dà spazio alla felicità, alla gaiezza che rincuora e rende leggera la vita. Dante, forse, fu preso da pietà, sentimento che, mi pare, susciti l’invidioso.

Tornando ai filosofi, Soeren Kiekegaard, filosofo danese, ne La malattia mortale scrisse dell’invidia che, secondo lui, nasconde una segreta ammirazione per l’invidiato, l’invidia però impedisce all’ammirazione di esternarsi, il che renderebbe felice sia colui che comunica la propria ammirazione sia la persona oggetto di apprezzamento. Quindi, conclude amaramente che <<l’ammirazione è una felice perdita di sé, l’invidia è un’infelice affermazione di sé.>>

Anche Friedrich Nietzsche, sul finire dell’Ottocento, scriverà: 

<<Agli invidiosi la felicità e l’onore appaiono sotto l’involucro esteriore della ricchezza e dello splendore, dell’acclamazione pubblica e delle lodi dei giornali… essi non riescono a vedere il cuore delle cose>>.

Se si riuscisse a vedere nel cuore di ognuno si potrebbe trovare dolore, fatica, impegno, merito, e niente che debba essere invidiato. Dall’invidia e dal risentimento nascerà la <<morale degli schiavi >>, cioè di coloro che sono incapaci di vivere con pienezza la vita, di coloro che non cercano di migliorare ma di colpire e abbassare la <<morale degli aristocratici>> che non sono i nobili per nascita ma i nobili nell’animo, quelli che fanno trionfare il sì alla vita e a sé stessi. Questi temi porteranno poi al Superuomo e alla critica al cristianesimo.

L’invidia è stata anche dipinta da Giotto che la immaginò come una donna avida che stringe in pugno i suoi averi mentre brucia per il suo stesso male; una serpe esce dalla sua bocca e colpisce gli occhi per avvelenare lo sguardo. L’invidioso, infatti, guarda biecamente gli altri, magari si augura che il malocchio si abbatta sulla sua vittima ma non sarebbe più felice, il male che ha dentro lo renderà sempre triste.

Preferisco seguire quanto dicevano i nostri nonni:<< Va’ ccu li miagghiu ‘i tia e fhacci ‘i spisi>> (Vai con i migliori di te e spendi per loro).

 Mi piace oggi rifugiarmi nelle parole di Spinoza, il filosofo da cui sono partita: <<Non irridere, non compiangere, non disprezzare ma cerca di comprendere ogni azione umana>>.

                                                                                                       Spinoza, Tractatus, I – 4

Gabriella Colistra

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