Un amore a Copenaghen

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Di solito, la filosofia non si occupa di storie d’amore.

Un caso diverso si ha quando è proprio il filosofo a mettere al primo posto, o comunque in una posizione importante e determinante, l’amore per una donna.

Il filosofo in questione è Soren Kierkegaard (1813 – 1855), danese, contestatore della filosofia hegeliana e scrittore molto prolifico che ha messo, al centro della sua filosofia, la sua vita e le figure che l’hanno particolarmente influenzata. Tra queste il padre con cui ebbe un difficile rapporto, il vescovo della sua città con il quale ebbe una lunga polemica vissuta sui giornali locali, e Regine Olsen, la donna amata per tutta la vita ma lasciata dopo un anno di fidanzamento. Questi legami e le conseguenti rotture sono la sigla del filosofo combattuto tra due possibilità tali che l’una escluda l’altra. Ricordo, per inciso, che il capolavoro di Kierkegaard si intitola proprio Aut – Aut.

Sono passati più di dieci anni dalla rottura del fidanzamento e Kierkegaard ricorda così la sua Regine:<<Era una fanciulla deliziosa, una natura amabile, quasi fatta apposta perché una malinconia come la mia potesse trovare l’unica gioia nell’incantarla. Graziosa ella era veramente la prima volta che la vidi: graziosa nel suo abbandono, era commovente in senso nobile, non senza una certa sublimità nell’ultimo momento della separazione […] E sarebbe stata una beatitudine poter incantarle la vita, una beatitudine vedere la sua beatitudine indescrivibile.>>

Nonostante questo la lascia e così scrive:<<Chiesi un colloquio con lei, lo ebbi il 10 settembre di pomeriggio […] la rottura definitiva avvenne circa due mesi dopo. Essa si disperò.>>

Qualche anno dopo, lei si sposa con un altro ma il filosofo non la dimentica, anzi confessa:<< la legge di tutta la mia vita è che lei ritorna in tutti i punti decisivi.>> Non la dimentica e spesso la incontra nelle sue passeggiate per le vie di Copenaghen, lei in compagnia del marito, lui da solo, parlano solo i loro occhi: quelli di lei dicono del dolore provato per l’abbandono e del tentativo di suicidio, oggi, però, legge tutti i suoi libri; quelli di lui lasciano trasparire amore e dolore per quel “pungolo nella carne” che gli impedisce di vivere la vita che vorrebbe e dicono che lui scrive perché sa che lei leggerà.

 

Perché Kierkegaard nonostante questo amore grande l’ha lasciata e continua a ricordarla con tanta struggente dolcezza? Come dicevo prima, per il filosofo, la vita ci impone degli aut-aut, in questo caso, egli è combattuto tra l’amore per la donna e il desiderio di diventare pastore. Nella Chiesa luterana, di cui era fedele, il pastore può anche sposarsi ma per Kierkegaard donarsi a Dio significa donarsi totalmente e la famiglia lo distoglierebbe dal vivere pienamente l’amore per Dio. C’è anche un altro motivo, probabilmente, il filosofo era un critico implacabile della società borghese di cui la famiglia benestante con figli era quasi il simbolo e Kierkegaard non se la sente di assumere su di sé l’onere di essere un buon marito e un buon padre.

Il filosofo non diventò mai pastore luterano, visse la sua esistenza con malinconia, scrisse libri complicati pieni di socratica ironia capaci di far nascere un sorriso nel lettore anche se i temi sono molto profondi.

Le angosce esistenziali e la disperazione che considerò compagna dei suoi giorni finirono solo con la morte che giunse improvvisa in un corpo molto debilitato; a soli quarantadue anni si spense a Copenaghen, la sua città natale; lasciò a Regine tutti i suoi beni.

Di sé aveva scritto:<<Un giorno, non soltanto i miei scritti, ma proprio la mia vita e tutto il complicato segreto del suo meccanismo sarà minuziosamente studiato.>>

Era geniale, profeta non credo, ma in questo caso ha indovinato: siamo ancora qui a parlare di lui.

Gabriella Colistra

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