Toni Morrison: architetto delle parole

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La grandezza di Toni Morrison si rivelò solo a 40 anni ed è strano pensare che il talento della grande scrittrice americana, scomparsa qualche tempo fa ,  sia rimasto nascosto per anni.
La sua morte l’ha fatta conoscere a chi ancora non aveva avuto modo di “incontrare” la sua scrittura.

Sì, perché i libri della Morrison, con il suo diretto modo di raccontare, sono tutti diversi, singole esperienze accomunate da una penna potente, forte di una personalità irrefrenabile che molti hanno accostato ad autori come Hemingway.
Inclusa tra i Grandi Maestri del Novecento, Toni Morrison esordisce in letteratura con L’occhio più azzurro in cui mostra un panorama che scuote e sconvolge l’America puritana di quegli anni con il racconto di una ragazzina nera “violata” nel corpo e nell’anima: sogna occhi azzurri per guardare il mondo in modo nuovo, per poter sognare a colori e credere a chi il Sogno vuole anche regalartelo.
Il Pulitzer arriva nel 1988 con lo straordinario Amatissima, storia di Margaret, schiava fuggita dal Kentucky che uccide la sua neonata quando sta per essere catturata di nuovo.
La professoressa Morrison, poco conosciuta e con poche amicizie importanti, non può che essere elogiata ed esaltata perché troppo grande è il suo talento, troppo importante e necessaria la sua scrittura.

Il Nobel giunge inevitabile dopo 5 anni e la “Profetessa con le trecce”, con la sua Bibbia e Shakespeare e Keats entra di fatto nella storia come la prima scrittrice afroamericana a vincere l’ambito premio; lei, che si alzava all’alba per scrivere con la sua matita, contraria alle moine e alle formalità, amante dell’Essenziale, fedele alla Bibbia ma amante delle serie Tv, lei che sapeva distinguere (e aveva bisogno di farlo) tra “la sincerità dell’Amore e l’ossequio”.
Scrisse per anni, ininterrottamente, 11 per l’esattezza, romanzi impegnativi ma anche per bambini e perfino sceneggiature teatrali; amava scrivere e amava i classici e Jane Austen e Mark Twain l’avevano accompagnata nel suo percorso verso la scrittura e li considerava necessari.

Di ognuno di essi (Shakespeare soprattutto) traeva linfa per il suo progetto creativo: la creazione di un vero e proprio nuovo linguaggio con esperimenti linguistici, espressioni metaforiche personali, nuova terminologia.

Creò una lingua, “un progetto e una missione” definita da molti.
La Morrison scriveva come scrive una scrittrice ma anche come analizza un critico che si approccia alla scrittura e si definisce lei stessa un “architetto delle parole”.
Nel suo saggio The source of Self Regard – l’Importanza di ogni parola-  critica paradossalmente i propri romanzi, ne passa al dettaglio ogni capitolo, analizza le parole utilizzate e i passaggi linguistici ed espressivi.

Questo perché temeva di essere poco comunicativa, troppo scientifica e meno vicina a farsi comprendere dal suo popolo, dalla sua gente; il suo “bisogno” creativo rispondeva all’esigenza di rendersi fruibile agli altri, lasciarsi capire con semplicità e senza sforzo, tramettere e dare VOCE alla “cultura nera”.

Questo lo scopo del Suo scrivere, suo privilegio come lo definiva.

Sandra Orlando

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