Giorni fa, un famoso e bravo giornalista, intervistato alla televisione sulla politica internazionale, spiegava il differente comportamento dei popoli, rispetto a certe questioni, basando le differenze sul prevalere dell’individualismo o sul senso della collettività. Ascoltandolo mi è tornato in mente l’antica, lunga, “vexata quaestio” sulla società aperta e la società chiusa.
Nel 1945 il filosofo Karl Popper (1902 – 1994) pubblicò La società aperta e i suoi nemici in cui, confrontandosi con filosofi del calibro di Platone, Hegel e Marx, condusse un’analisi sul problema della democrazia e della libertà nel mondo contemporaneo, sostenendo la società aperta in cui si è consapevoli della fallibilità della conoscenza e del pluralismo.
Se andiamo indietro nel tempo, troviamo già nel 494 a.C. a Roma Menenio Agrippa, di cui lo storico Tito Livio racconta il famoso apologo.
In quegli anni a Roma era in atto la lotta tra patrizi (nobili possidenti) e plebei (il popolo), le due componenti sociali della città. I plebei, stanchi di lavorare per i patrizi, decisero di astenersi dal lavoro e di ritirarsi sul Monte Sacro, rifiutandosi di tornare al lavoro finché non fossero state accolte le loro richieste. Menenio Agrippa, un patrizio, decise di parlare ai plebei per convincerli a tornare alle consuete attività. Disse loro che la società era come il corpo umano: se le mani non portano cibo alla bocca e questa non lo fa giungere al ventre che lo distribuisce poi a tutti gli organi, l’intero corpo deperisce. Il discorso vuol dimostrare che in una società è necessario il contributo di tutti perché questa si mantenga in vita e solida, ogni pretesa del singolo, in questo caso costituisce una minaccia.
Non si sa con certezza se il fatto raccontato sia avvenuto veramente, la concezione di società che sottintende, comunque, anticipa quella che sarà intesa come società chiusa e che avrà molto seguito nella realtà storica.
Anche il filosofo greco Aristotele (384 – 322 a.C.), nella sua opera Politica, considera lo Stato come un organismo naturale in cui il venir meno di una parte danneggia il tutto e l’uomo è considerato un “animale politico” proprio per la sua capacità di vivere in armonia e collaborazione con altri.
Alla visione organicistica della società si oppone quella che considera gli individui, e non la collettività, la parte più significativa della società. Sono gli individui che associandosi liberamente, danno origine e costruiscono le regole, le strutture portanti della società e progettano un futuro, non secondo piani prestabiliti ma secondo libere scelte che possono, nel tempo, anche variare. E’ questa la società aperta.
Un esempio di costruzione individualistica della società è quella del filosofo inglese Thomas Hobbes (1588 – 1679) che definisce la società e lo Stato “corpi artificiali” proprio per indicare che sono costruiti dall’uomo e raffigura lo Stato come il Leviatano, il mostro biblico dalle cento teste e con un solo corpo.
Nella società chiusa, l’individuo vive in funzione della società e l’idea di base è che società lo sia di natura, regolata da leggi naturali alle quali gli uomini non possono opporsi e spesso anche il loro ruolo sociale è prestabilito.
Nella società aperta, invece, è la società che vive in funzione dell’uomo, gli fornisce servizi e lo aiuta nel bisogno. Non ci sono ruoli predefiniti ma sono gli uomini che li scelgono, ancora l’uomo stabilisce le leggi e le modifica quando è necessario. Un rischio che si annida nelle società aperte è che il legittimo individualismo diventi egoismo.
Nel corso della storia, ci sono state sia società chiuse espresse da forme autoritarie o conservatrici, che società aperte espresse da governi liberali o democratici. Altre volte c’è stata una compresenza delle due forme, quando, in governi autoritari, da parte di alcuni sono emerse esigenze di libertà e individualità che hanno determinato significativi cambiamenti. In effetti, alcune caratteristiche dell’una e dell’altra società esprimono esigenze dell’uomo che sente in sé sia la componente biologica che è tipica dell’organicismo, sia l’aspirazione alla libertà che è propria della società aperta.
La situazione preferibile credo che sia quella di una società in cui si conservi ciò che ha valore e si cambino le cose che devono essere cambiate. Questa è forse solo una vana aspirazione se, come dice Bauman, siamo immersi in una modernità liquida.
Zygmunt Bauman (1925 – 2017), sociologo e filosofo polacco, nei suoi scritti sulla Modernità, ha sostenuto che la società contemporanea, condizionata fortemente dalla globalizzazione, ha favorito il consumismo e il conformismo. Le nuove forme di comunicazione hanno connesso tutto il mondo ma la società è diventata indefinibile e inafferrabile, quindi liquida. Il progresso tecnologico ha avuto uno sviluppo più veloce di quanto l’uomo potesse seguire, da qui nasce una profonda solitudine e la sfiducia esistenziale attanaglia l’uomo come se fosse su una nave senza nocchiero.
Né sta meglio la politica incapace di finalizzare le sue azioni al bene comune piuttosto che all’interesse personale. Bauman pensa ad un ritorno all’antica agorà in cui i cittadini si riunivano in assemblea, discutevano di politica, trattavano i loro affari.
Perché ciò possa avvenire oggi è necessario che ci siano condizioni culturali e ambientali diverse, che emergano nuove idee e competenze, che ci sia l’impegno di coloro che sanno tradurre le teorie in pratica per non dover assistere ai continui rinvii paralizzanti a cui ci ha abituato la politica, infine, che la politica esprima le persone giuste al posto giusto. Naturalmente, ogni uomo, nel suo piccolo, dovrebbe sostenere le idee e le azioni migliori.
Gabriella Colistra