Domenica, 9 maggio 1993: Giovanni Paolo II, in visita alla Valle dei Templi di Agrigento, a sorpresa e con una forza profetica mai ascoltata prima, grida:
“Dio ha detto una volta: non uccidere! Non può l’uomo, qualsiasi, qualsiasi umana agglomerazione, mafia, non può cambiare e calpestare questo diritto santissimo di Dio!
Questo popolo, popolo siciliano, talmente attaccato alla vita, un popolo attaccato alla vita, un popolo che ama la vita, che dà la vita, non può vivere sempre sotto la pressione di una civiltà contraria, civiltà della morte.
Qui ci vuole la civiltà della vita! Nel nome di questo Cristo Crocifisso e risorto, di questo Cristo che è vita, via, verità e vita.
Lo dico ai responsabili: Convertitevi! Una volta, un giorno, verrà il giudizio di Dio!”.
https://www.youtube.com/watch?v=xJglblBLxHE
Parole pronunciate a braccio, spontanee, a conclusione della sua due giorni in terra agrigentina, dense di pathos, direttamente indirizzate ai boss della mafia, della camorra, della ‘ndrangheta e ormai universalmente riconosciute come la più dura e severa condanna papale contro la mafia, un inoppugnabile anatema lanciato per mettere all’indice quel male che opprimeva alcuni territori italiani, “quella montagna di merda” che, pochi mesi prima, si era fatta sentire ancora una volta con le stragi di Capaci e di Via D’Amelio falcidiando Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, e gli uomini e le donne delle loro scorte.
Oggi, domenica 9 maggio, anniversario della visita apostolica di Giovanni Paolo II, a distanza di ventotto anni da quel duro e appassionato monito contro la mafia, viene celebrato, con diretta su RAI1, nella Cattedrale di Agrigento, presieduto dal cardinale Marcello Semeraro, prefetto della Congregazione delle Cause dei Santi, il rito per la beatificazione di Rosario Livatino, dando concretezza all’autorizzazione del 22 dicembre 2020 di Papa Francesco alla promulgazione del decreto che riconosceva il martirio di Livatino “in odium fidei“, “in odio alla fede”.
Una data scelta non a caso: rappresenta lo storico anniversario della visita nella città dei templi di Giovanni Paolo II e ricorda il Pontefice che, per primo, in quella famosa domenica, definì Livatino, dopo aver incontrato i suoi genitori, “martire della giustizia e indirettamente della fede”.
Rosario Livatino nasce il 3 ottobre 1952 a Canicattì, sinonimo per parecchio tempo di “luogo lontano”, “quasi irraggiungibile”… un luogo comune che affondava la sua radice storica nella costruzione della ferrovia che, nel 1876, iniziava a Milano e terminava in un paese “molto lontano”, mettendone quasi in dubbio la sua stessa esistenza, con un viaggio che andava dalle 24 alle 36 ore.
Si laurea in Giurisprudenza all’Università di Palermo nel luglio del 1975, col massimo dei voti e la lode e, giovanissimo, entra nel mondo del lavoro come vicedirettore dell’Ufficio del Registro di Agrigento, dove presta servizio dal 1° dicembre 1977 al 17 luglio 1978.
Nel frattempo vince il concorso in magistratura e lavora a Caltanissetta da uditore giudiziario per poi passare al Tribunale di Agrigento, dove per un decennio, dal settembre ’79 all’agosto ’89, come Sostituto Procuratore della Repubblica si occupa di inchieste molto scottanti e complesse sulle organizzazioni criminali, di particolari indagini antimafia e di episodi di corruzione legati alla “Tangentopoli siciliana”.
Dal 21 agosto ’89 al 21 settembre ’90 sempre presso il Tribunale di Agrigento quale giudice a latere e della speciale sezione misure di prevenzione.
Gli studi e gli impegni lavorativi non gli impediscono di “partecipare all’Azione Cattolica e frequentare la parrocchia, dove tiene conversazioni giuridiche e pastorali, dà il proprio contributo nei corsi di preparazione al matrimonio e interviene agli incontri organizzati da associazioni cattoliche. Anche da Magistrato continua a vivere l’esperienza della comunità parrocchiale“.
Nel 1988 a 35 anni, dopo aver seguito regolarmente il corso di preparazione, riceve il sacramento della Cresima.
Trova la morte, in un agguato mafioso, per mano di quattro killer della Stidda, mafia agrigentina e organizzazione criminale in contrasto con Cosa Nostra, la mattina del 21 settembre 1990 sul viadotto Gasena, lungo la SS 640 Agrigento-Caltanissetta mentre senza scorta, l’aveva rifiutata sebbene consapevole dei rischi a cui era esposto, e con la sua Ford Fiesta si sta recando in Tribunale.
L’uomo retto, giusto e attaccato alla fede non poteva essere un interlocutore della criminalità.
Andava eliminato e quindi ucciso… perché come si legge nella sentenza di condanna dei colpevoli «perseguiva le cosche mafiose impedendone l’attività criminale, laddove si sarebbe preteso un trattamento lassista, cioè una gestione giudiziaria se non compiacente, almeno, pur inconsapevolmente, debole, che è poi quella non rara che ha consentito la proliferazione, il rafforzamento e l’espansione della mafia».
Una macchina con a bordo quattro sicari l’avvicina… gli sparano!

Colpito alla spalla, accosta la macchina, scappa per i campi e urla:
«Cosa vi ho fatto picciotti?».
Ma Livatino non sente la risposta: un colpo alla tempia lo fredda.
“Sapevo molto bene i rischi che correvo, ma considerando che ero l’unico tra i sostituti procuratori di Agrigento a non avere famiglia, chiesi che mi fosse affidata una difficile inchiesta di mafia e con fiducia totale mi affidai – come sempre – nelle mani di Dio” aveva detto a Don Mario Bandera.
Grazie al supertestimone Pietro Ivana Nava, i killer e i mandanti vengono individuati e, dopo i vari gradi di processo, condannati.
La motivazione che spinge la mafia agrigentina ad eliminare Livatino la si può anche leggere nel documento che annuncia la decisione del Papa di elevarlo a beato.
“Fu la sua nota dirittura morale per quanto riguarda l’esercizio della giustizia, radicata nella fede. Durante il processo penale emerse che il capo provinciale di Cosa Nostra lo definiva con spregio «santocchio» per la sua frequentazione della Chiesa. Dai persecutori era ritenuto inavvicinabile, irriducibile a tentativi di corruzione proprio a motivo del suo essere cattolico praticante“.
Significative per la causa di beatificazione del giovane magistrato le testimonianze delle 45 persone sulla vita e la santità di Rosario Livatino, compresa quella di Gaetano Puzzangaro, uno dei quattro killer mafiosi del giudice, essenziali alcuni scritti trovati nella sua agenda:
“Oggi, 18 luglio 1978, ho prestato giuramento: da oggi sono in magistratura. Che Iddio mi accompagni e mi aiuti a rispettare il giuramento e a comportarmi nel modo che l’educazione, che i miei genitori mi hanno impartito, esige” e quell’acronimo “S.T.D.“, riportato su appunti, documenti e quaderni del magistrato e inizialmente scambiato per un codice segreto.
Quel costante affidamento a Dio: “S.T.D.” “Sub Tutela Dei“, sotto la protezione del Signore, principio ispiratore della sua vita e segno di una spiritualità profonda.
Fede e diritto per Livatino sono due realtà “continuamente interdipendenti fra loro, continuamente in reciproco contatto, quotidianamente sottoposte ad un confronto a volte armonioso, a volte lacerante, ma sempre vitale, sempre indispensabile”.
Rifacendosi ad alcuni passi evangelici, Livatino osserva come Gesù affermi che “la giustizia è necessaria, ma non sufficiente, e può e deve essere superata dalla legge della carità che è la legge dell’amore, amore verso il prossimo e verso Dio, ma verso il prossimo in quanto immagine di Dio, quindi in modo non riducibile alla mera solidarietà umana; e forse può in esso rinvenirsi un possibile ulteriore significato: la legge, pur nella sua oggettiva identità e nella sua autonoma finalizzazione, è fatta per l’uomo e non l’uomo per la legge, per cui la stessa interpretazione e la stessa applicazione della legge vanno operate col suo spirito e non in quei termini formali”.
Ancora su questo aspetto, Livatino sostiene:
“Cristo non ha mai detto che soprattutto bisogna essere ‘giusti’, anche se in molteplici occasioni ha esaltato la virtù della giustizia. Egli ha, invece, elevato il comandamento della carità a norma obbligatoria di condotta perché è proprio questo salto di qualità che connota il cristiano”.
Rispetto al ruolo del magistrato, Livatino afferma:
“Il compito del magistrato è quello di decidere. Orbene, decidere è scegliere e, a volte, tra numerose cose o strade o soluzioni. E scegliere è una delle cose più difficili che l’uomo sia chiamato a fare. Ed è proprio in questo scegliere per decidere, decidere per ordinare, che il magistrato credente può trovare un rapporto con Dio. Un rapporto diretto, perché il rendere giustizia è realizzazione di sé, è preghiera, è dedizione di sé a Dio. Un rapporto indiretto per il tramite dell’amore verso la persona giudicata”.
Nella messa per il suo funerale, il vescovo di Agrigento lo descrive come giovane “impegnato nell’Azione Cattolica, assiduo all’Eucaristia domenicale, discepolo fedele del Crocifisso”.
Il suo impegno di fede è attestato anche dal volere, nell’aula delle udienze, in tribunale, il crocifisso e dal fatto che ogni mattina, prima di entrare in tribunale, va a pregare nella vicina chiesa di San Giuseppe.
Nell’udienza al Consiglio superiore della magistratura, il 17 giugno 2014, Papa Francesco definisce Livatino “testimone esemplare, giudice leale alle istituzioni, aperto al dialogo, fermo e coraggioso nel difendere la giustizia e la dignità della persona umana“.
“Egli era convinto“ – aggiunge il Vice presidente nazionale Acli, Antonio Russo, in una intervista a Famiglia Cristiana – che “il giudice di ogni tempo deve essere e apparire indipendente, e tanto può esserlo e apparire ove egli stesso lo voglia, e deve volerlo per essere degno della sua funzione e non tradire il suo mandato“.
“Ma per Livatino” – continua Russo – “questo non bastava“.
La ricerca della giustizia non doveva essere inseguita solo da chi faceva quel mestiere, ma dalla società tutta: «riformare la giustizia in senso soggettivo e oggettivo è compito non di pochi magistrati, ma di tanti: dello Stato, dei soggetti collettivi, della stessa opinione pubblica. Recuperare infatti il diritto come riferimento unitario della convivenza collettiva non può essere, in una democrazia moderna, compito di una minoranza».
“Inoltre” – aggiunge Russo – “Livatino non si stancava mai di parlare del giusto rapporto fra magistrato e mondo dell’economia e del lavoro, fra magistratura e politica.
Sottolineava sempre l’importanza dell’indipendenza – nella forma e nella sostanza, dentro e fuori le mura del palazzo di giustizia – del giudice e portava sempre a tema il problema della responsabilità degli appartenenti all’ordine giudiziario“.
Egli diceva: «Non esiste, si può dire, atto del giudice e più ancora del pubblico ministero che possa dirsi indolore… La colpa del giudice, se c’è, è sempre grave per definizione, data dall’importanza degli interessi sui quali egli dispone».
Oltre a queste parole, tuttora molto attuali, il “giudice ragazzino” aveva molte qualità umane.
Era un uomo sobrio, umile, coerente, generoso, credibile, proprio perché, come egli stesso ebbe a dichiarare, una volta morti, «non vi sarà chiesto se siete stati credenti, ma se siete stati credibili».
E poi aveva una profonda fede che tentava di associare al diritto.
Egli sosteneva che il compito del magistrato fosse quello di decidere, scegliere una fra le numerose strade che ti si prospettano davanti: «scegliere è una delle cose più difficili che l’uomo sia chiamato a fare…”.
Ed è proprio in questo scegliere per decidere che il magistrato credente può trovare un rapporto con Dio. Un rapporto diretto, perché il rendere giustizia è realizzazione di sé, è preghiera, è dedizione di sé a Dio. Un rapporto indiretto per il tramite dell’amore verso la persona giudicata».
Diceva Gandhi:
«il mondo di oggi ha bisogno di persone che abbiano amore e lottino per la vita almeno con la stessa intensità con cui altri si battono per la distruzione e la morte”.
Rosario Livatino è stato uno di quelli.
Un vero giusto.
E’ il vero motivo per cui da oggi, domenica 9 maggio, il “giudice ragazzino” è il primo magistrato beato nella storia della Chiesa Cattolica.
E oggi, domenica 9 maggio 2021, nella beatificazione del “giudice ragazzino” c’è anche la risposta definitiva alla frase pronunciata otto mesi dopo la sua morte dal Presidente della Repubblica Francesco Cossiga, peraltro già abbondantemente contestata dal sociologo Nando Della Chiesa.
Secondo Cossiga i magistrati freschi di concorso non sarebbero stati in grado di affrontare indagini e processi complessi riguardanti le mafie:
«Possiamo continuare con questo tabù, che poi significa che ogni ragazzino che ha vinto il concorso ritiene di dover esercitare l’azione penale a diritto e a rovescio, come gli pare e gli piace, senza rispondere a nessuno…?
Non è possibile che si creda che un ragazzino, solo perché ha fatto il concorso di diritto romano, sia in grado di condurre indagini complesse contro la mafia e il traffico di droga. Questa è un’autentica sciocchezza! A questo ragazzino io non gli affiderei nemmeno l’amministrazione di una casa terrena, come si dice in Sardegna, una casa a un piano con una sola finestra, che è anche la porta».
Vincenzo Fiore
Il dipinto-ritratto di Rosario Livatino è stato gentilmente concesso a ScrepMagazine dall’artista di Canicattì Gioacchino Di Caro, che lo ha realizzato con una tecnica mista su carta.
“Con questo dipinto – ha affermato Di Caro – ho voluto omaggiare la figura di Rosario Livatino, grande esempio di giustizia e rispetto dei valori. E come disse Papa Francesco: “il nostro illustre concittadino fu esempio non soltanto per i magistrati, ma per tutti coloro che operano nel campo del diritto: per la coerenza tra la sua fede e il suo impegno di lavoro e per l’attualità delle sue riflessioni”.
Le grafiche della Sicilia invece ci sono state gentilmente concesse dall’artista di Caltabellotta Accursio Truncali.
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