“Perché scrivo?” Luis Sepùlveda

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Dopo una vita in fuga dalle dittature del Sudamerica, qualche giorno fa ci ha lasciato Luis Sepùlveda.

L’autore de “La gabbianella e il gatto” si è spento il 16 aprile 2020 a Oviedo all’età di 70 anni.

Attivista instancabile e incredibile narratore, Sepúlveda ha scelto la letteratura per “dar voce a chi non ha voce”.

La sua vita non è stata semplice. Nato il 4 ottobre del 1949 a Ovalle, in Cile, in una stanza d’albergo, è cresciuto in un quartiere proletario di Santiago del Cile.

Da bambino sognava di diventare un calciatore ma presto diventò un fervido lettore di Garcia Lorca, Antonio Machado e Gabriela Mistral, prima donna latinoamericana a vincere il Nobel per la letteratura nel 1945.

Arrestato nel 1973 dopo il colpo di stato con cui si era instaurata la dittatura di Pinochet, passò sette mesi in una cella minuscola in cui era impossibile stare anche solo sdraiati o in piedi.

Dopo le pressioni di Amnesty International, fu liberato ma le sue convinzioni politiche gli costarono un secondo arresto e una condanna all’ergastolo, che poi si tramutò in otto anni d’esilio.

Vi propongo questo brano “perché scrivo”, unico modo che conosceva per resistere a una società che non accetta, società che lo ha portato all’esilio di otto anni.

PERCHÉ SCRIVO?

Non sono incline a perdermi nei vecchi dubbi che tormentarono e fecero riflettere gli antichi filosofi, né ad avvertirne altri se non quelli necessari ad avanzare sull’unica strada che sento possibile, la strada della scrittura, la barricata a cui sono arrivato quando tutte erano state ormai spazzate via, quando già pensavo che non ci fosse più posto per la resistenza. Da Gui- maràes Rosa ho imparato che «raccontare è resistere» e su questa barricata della scrittura resisto agli assalti della mediocrità planetaria, la mostruosa proposta unica di esistenza e cultura che incombe sull’umanità alla svolta del millennio.
Per questo scrivo, per la necessità di resistere davanti all’impero dell’unidimensionalità, della negazione dei valori che hanno umanizzato la vita e che si chiamano fraternità, solidarietà, senso di giustizia. Scrivo per resistere all’impostura, alla frode di un modello sociale in cui non credo, perché non è vero che la cosiddetta «globalizzazione» ci avvicina e finalmente permette a tutti gli abitanti della terra di conoscersi, intendersi e capirsi.
Scrivo per amore delle parole che amo e per l’ossessione di dare un nome alle cose a partire
da una prospettiva etica ereditata da un’intensa pratica sociale. Scrivo perché ho memoria e la coltivo scrivendo della mia gente, degli abitanti emarginati dei miei mondi emarginati, delle mie utopie derise, dei miei gloriosi compagni e compagne che, sconfitti in mille battaglie, continuano a preparare i prossimi combattimenti senza paura delle sconfitte.
Scrivo perché amo la mia lingua e in lei riconosco l’unica patria possibile, perché il suo territorio non conosce limiti e il suo palpito è un continuo atto di resistenza.

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