Il dialetto calabrese vanta un panorama lessicale piuttosto variegato, per fare un distinguo tra le sue voci linguistiche: è il caso di “ficu janca” (fico dottato), “columbra” (fico nero), “pricessotta” (fico brogiotto), “signurella” (fico verdino), ’ngroffa (fico ancora acerbo, ma che sta per maturare), “nivurella” (fico nerastro a forma di castagna, fico castagnuolo), “ficu indiana” (fico d’India), a mo’ d’esemplificazione.
Non vi nascondo che nell’elenco sopracitato ha catalizzato il mio interesse la forma ’ngroffa, anche perché nel dialetto lametino, spostandomi dalla tassonomia scientifica dei frutti, è andata ad acquisire il significato metaforico di “fregatura, brutto guaio”.
L’etimo fuggente della nostra parola dialettale mi rimanda all’antico germanico grȏz, che significa cosa grossa o grave: una bella rogna, eh sì!
Come mai l’accezione di fregatura, mi sono chiesto immediatamente: mi sono interrogato sulle ragioni bibliche, che non sono, in questo caso, assolutamente extralinguistiche, come verificherete!
Gesù stesso usava il fico come esempio per impartire il suo pensiero sul dono di sé e sulla relazione dell’uomo con Dio. In Matteo (21:17-22) e in Marco (11:12-24) vediamo Cristo che maledice e secca un albero di fico, perché ricco di foglie verdi ma privo di frutti.
A parte questo episodio neotestamentario, ancor prima, nel Giardino dell’Eden, l’albero di fico è associato alla vergogna adamica ed evina: i nostri progenitori, dopo il peccato originale, infatti, si coprirono con foglie di fico (Genesi, 3:7).
Niente di buono, praticamente, s’associa a questo frutto: un brutto guaio, ’na ’ngroffa, come diciamo dalle nostre parti, allora!
L’immagine d’apertura riproduce un quadro rinascimentale di Hans Baldung Grien.
Per la sitografia visiva:
https://it.wikipedia.org/wiki/Adamo_ed_Eva_(Hans_Baldung_Grien)
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