Mio nonno ad Asmara

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Siamo in Africa, ad Asmara (è corretto chiamarla anche Asmera che in lingua copta, significa letteralmente ‘’quattro villaggi’’). Capitale dell’Eritrea posta a 2400 metri di quota sull’altipiano che domina il Mar Rosso, Asmara è una straordinaria raccolta di gioielli dell’architettura del primo ‘900. In questo luogo improbabile, una drammatica vicenda di conflitti e di guerre, ha paradossalmente conservato intatto per più di mezzo secolo, un sorprendente patrimonio artistico che solo ora viene scoperto e studiato. Un patrimonio che riguarda il nostro paese da vicino.
L’Eritrea fu colonia italiana dalla fine del 1800 al 1941 e nel corso di quel mezzo secolo, gli architetti italiani costruirono la città del futuro. Centinaia di palazzi, ville, teatri, stazioni di servizio, chiese, cinema. Sono passati più di ottant’anni e quasi tutto è rimasto com’era. Questi edifici hanno resistito a tutti i cambiamenti avvenuti nel frattempo e chi oggi arriva ad Asmara, ha la straordinaria sensazione di tornare indietro nel tempo e di scoprire una fetta d’Italia della prima metà del 900, trapiantata in Africa. Gli operai venivano reclutati tramite l’ufficio di collocamento e giungevano dai luoghi più disparati della Penisola, da Vibo Valentia partirono in tre, e arrivavano ad Asmara dopo un estenuante viaggio durato circa un mese. Erano operai militarizzati e durante le libere uscite, avevano l’obbligo di girare armati anche se, gli ingenui eritrei, non costituivano certo un pericolo. Fra i vibonesi c’era anche mio nonno, Antonio Camillò, un artista dimenticato che la miseria costrinse ad allontanarsi dalla sua città e dalla sua famiglia e portare il suo talento lontano, sulle coste del Mar Rosso. Quel nonno sepolto lontano e perciò misterioso nelle mie riflessioni di bambina. Di lui gli anziani, dicevano che era un grande artista, che senza aver studiato, conosceva nei dettagli i segreti dell’architettura. Pur non volendo passare per un critico d’arte, affermo senza esagerare, che le sue opere si possono paragonare al neoclassicismo del Canova.
Nella fantasia dei bambini le cose incomprensibili o invisibili hanno il fascino del mistero ma oggi, che non sono più bambina, ogni cosa è chiara davanti a me. Più di tutto ho chiara davanti a me la sua immagine in un ritratto, accanto al quale, la nonna amava stare seduta per pomeriggi interi. Forse un modo per tenerlo accanto a sé. Era un bell’uomo ma più di ogni cosa, era bello il suo sguardo, l’amore che riusciva ancora a trasmettere.
Il mio misterioso nonno nacque a Monteleone (oggi Vibo Valentia) il 9 febbraio del 1901.  Nonna non parlava molto di lui, forse per non riaprire vecchie ferite. Era forse un modo per proteggere sé stessa da quel dolore lontano ma sempre presente. Parlava però, delle canzoni che il nonno cantava o della mimica nell’imitare i personaggi buffi del tempo, solo per farla ridere.
Tanti furono i lavori che sbocciarono dalle sue sapienti mani. Soprattutto cappelle cimiteriali ma lavorò anche al restauro del Convento di S. Domenico a Soriano C. e al restauro della chiesetta di S. Pietro in Longobardi (VV).
Tra le sue opere, quella più monumentale è la Cappella della famiglia Cordopatri, eretta nel cimitero di Vibo Valentia, demolendone una già preesistente. Lo stile è inconfondibile: le colonne che sorreggono l’architrave sormontato dal fregio decorato con rilievi, sono di stile Corinzio con le foglie di acanto che sembrano muoversi in un’armonica danza. La forma della costruzione geometrica ha alle spalle una finestra circolare, che impedisce che l’occhio scivoli giù, lungo il muro di mattoni. Non è una figura immersa in uno spazio ma uno spazio visivo solidificato.
L’ingresso è custodito da due leoni accovacciati sui loro parallelepipedi in marmo, che come sentinelle delimitano il passaggio tra la vita e la morte. Uno dorme, l’altro veglia e controlla i movimenti dell’ignaro passante, pronto a scattare. Salire, svoltare, addentrarsi: è il percorso sublimante dalla vita alla morte, che è ascesa, svolta dalla vita, ingresso in una dimensione senza tempo né spazio.
Troviamo gli stessi leoni, il sonno e la veglia, nel monumento a Clemente XIV posto nella chiesa dei SS. Apostoli in Roma, monumento che fu eretto proprio dal Canova tra il 1782 e il 1787.
Questo fu in assoluto l’ultimo lavoro realizzato nella sua città poi, non ricevendo più commesse fu costretto a partire. Devo aggiungere che la foto di questa meravigliosa cappella, anni fa, fu pubblicata sul famoso “Figaro” francese, dopo che i suoi inviati avevano realizzato un reportage sulle cappelle cimiteriali del sud Italia. Furono in tanti che come lui, non tornarono più a casa. Il cimitero Militare Italiano (oggi demolito) di Asmara, di Massawa e di Cheren, sono diventati la loro casa. In questi cimiteri furono sepolti coloro i quali morirono per svariate cause. Di questi luoghi sacri c’è da dire che il governo italiano ne conserva i diritti nonostante le truppe italiane si scontrarono con gli inglesi, dal 1940 al 1941, perdendo definitivamente l’Africa orientale.
Nonno Antonio morì il 4 dicembre del 1938 nell’Ospedale Regina Margherita di Asmara per cause ancora oggi, sconosciute. Fu nella città dell’utopia che i suoi meravigliosi occhi si spensero e le sue mani d’oro si fermarono per sempre.

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