L’importanza del “Sé” in ambito di psicologia sociale

123850

“Amare se stessi è l’inizio di un idillio che dura tutta la vita.” Oscar Wilde.

A partire dal mondo dell’antica Grecia, centinaia di pensatori si sono instancabilmente dedicati ad interrogarsi con passione sul Sé o, per essere più precisi, sugli infiniti misteri che caratterizzano il mondo interiore dell’essere umano che da alcuni è stato definito con il termine “io”, e da altri ancora con quello di “coscienza.”

William James fu uno dei primi filosofi ad interrogarsi sulle questioni inerenti il Sé, affermando che l’idea che si ha della propria persona risponde a delle percezioni ben organizzate.

Esiste, in primo luogo, una rappresentazione del Sé inerente gli aspetti materiali che sono strettamente connessi alla persona, quali il corpo, la famiglia, la propria casa, gli affetti in generale, per citare solo alcuni degli esempi possibili.

In linea esattamente parallela sussiste un concetto di Sé strettamente connesso a quelli che James definisce aspetti sociali.

Esso riguarda le rappresentazioni della propria persona che tengono conto delle disparate immagini che gli altri individui possiedono di noi.

Secondo la concezione del filosofo i Sé sociali sono tanti quanti gli individui che hanno interiorizzato un’immagine di noi.

Il soggetto possiede una concezione relativa agli aspetti spirituali del Sé, ovvero tutte quelle sfaccettature che hanno a che fare con le facoltà psicologiche, con le motivazioni e con le disposizioni, nonché la serie di atteggiamenti che si mischia con i tratti salienti di personalità.

Charles Cooley afferma che “lo sviluppo del Sé risulta strettamente connesso all’interazione con gli altri”.

Egli si basa sul principio del “Looking-glass self”, ovvero Sé rispecciato, e pone in evidenza come la percezione di Sé non sia altro che un riflesso delle idee relative alla propria persona che attribuiamo agli altri.

In altre parole la nostra capacità immaginativa ci consente di percepire, nella mente di un altro individuo, una particolare maniera di considerare i nostri comportamenti, il nostro carattere e persino il nostro aspetto.

Tutto questo esercita inevitabilmente una grande influenza su di noi e sulla nostra autostima.

Anche Goffman, nel 1969, sittolineo’ che è assolutamente impossibile che il soggetto possa costruire una percezione di Sé che non sia intimamente correlata con il Sé delle persone che lo circondano.

Tuttavia, più che altro, questo autore si sofferma sulle “esigenze narcisistiche del Sé”, affermando che il comportamento delle persone è, nella stragrande maggioranza dei casi, influenzato dal desiderio di imprimere un’impressione positiva nella mente della gente che occupa un posto di rilievo nella personale esistenza.

È come se fossimo tutti degli attori che si esibiscono su un palcoscenico.

Recitiamo ruoli disparati, facendo molta attenzione a celare con molta cura le nostre eventuali lacune.

L’aspetto interessante è dato dal fatto che tutti noi crediamo di agire in maniera del tutto spontanea, ed invece non facciamo altro che cimentarci in una recita infinita che ha la durata di tutta la vita.

Guardarsi dentro è fondamentale per comprendere se stessi.

Tuttavia, diversamente da ciò che si potrebbe unanimamente pensare, non sempre sfruttiamo in maniera proficua questa grande opportunità, nel senso che non in tutte le occasioni siamo disposti a procedere all’effettuazione di modalità di tipo introspettivo.

Secondo la “Teoria dell’autoconsapevolezza oggettiva”, la ragione di una così spiccata riluttanza va ricercata nella particolare condizione psicologica in cui viene a trovarsi la persona, quando il Sé diventa l’oggetto dell’attenzione. “

In altre parole : se il soggetto non trae soddisfazione dal Sé (a causa di tante ragioni dovute ad insicurezze di vario genere), mostrerà reticenza nella libera manifestazione delle caratteristiche personali al resto della gente che lo circonda ed eviterà persino di procedere ad una maggiore conoscenza personale.

L’essere umano è più insicuro di quanto sia nelle condizioni di rendersene conto.

Dunque, mantenere un livello di autostima spiccato pare rivelarsi un’impresa abbastanza ardua.

Sostenere l’immagine personale sembra costituire un’esigenza radicata in tutti gli esseri umani.

Chiunque tiene a ricevere dei feedback positivi riguardo al sé, sia da un punto di vista professionale, affettivo o delle relazioni sociali.

La grande forza di questa spinta motivazionale è certamente connessa agli enormi vantaggi che essa fornisce in termini emotivi e di adattamento sociale.

Percepirsi in una luce positiva, infatti, indipendentemente dall’obiettivita’ di tale valutazione, consente di gestire al meglio le situazioni stressanti, di sperimentare raramente sentimenti di solitudine, di depressione e di ansia, di sviluppare un atteggiamento positivo nei confronti della vita e di manifestare un’ottima forma fisica.

Delle valutazioni maggiormente caute e negative che ineriscono se stessi si associano invece a questioni di disadattamento, di difficoltà nelle relazioni interpersonali e di depressione.

Altri studi dimostrano che elevati livelli di autostima sono connessi ad una maggiore perseveranza nei compiti, la qual cosa aumenta la probabilità di raggiungere il successo ( Taylor 1989).

In aggiunta al bisogno di percepire se stessi sotto una luce positiva, le persone tendono a mostrare una spiccata tendenza a preservare le opinioni circa se stesse.

Una volta che si sono formate, le credenze in merito alla propria persona sono molto resistenti al mutamento ( Sullivan 1953).

“Possedere un concetto di sé stabile e coerente è di fondamentale importanza in termini adattivi , poiché consente di esercitare una forma di controllo sull’ambiente sociale. Sapere di essere fatti in un determinato modo ci permette di selezionare certe attività piuttosto che altre, massimizzando le nostre possibilità di successo”.

Tutto questo è quanto è stato affermato da alcuni dei più grandi teorici della psicologia ( Heider 1958, Kelly 1955, Rotter 1966).

Per ulteriori approfondimenti suggerisco di consultare il volume “Introduzione alla psicologia sociale” di Stefano Boca, Piero Bocchiaro e Costanza Scaffidi Abbate, edizioni” il Mulino”.

Maria Cristina Adragna 

Previous article“a tu per tu con…” Letizia Caiazzo
Next article“Sei come neve” di Maurizio Gimigliano
Maria Cristina Adragna
Siciliana, nasco a Palermo e risiedo ad Alcamo. Nel 2002 conseguo la Maturità Classica e nel 2007 mi laureo in Psicologia presso l'Università di Palermo. Lavoro per diverso tempo presso centri per minori a rischio in qualità di componente dell'equipe psicopedagogica e sperimento l'insegnamento presso istituti di formazione per operatori di comunità. Da sempre mi dedico alla scrittura, imprescindibile esigenza di tutta una vita. Nel 2018 pubblico la mia prima raccolta di liriche dal titolo "Aliti inversi" e nel 2019 offro un contributo all'interno del volume "Donna sacra di Sicilia", con una poesia dal titolo "La Baronessa di Carini" e un articolo, scritti interamente in lingua siciliana. Amo anche la recitazione. Mi piace definire la poesia come "summa imprescindibile ed inscindibile di vissuti significativi e di emozioni graffianti, scaturente da un processo di attenta ricerca e di introspezione". Sono Socia di Accademia Edizioni ed Eventi e Blogger di SCREPmagazine.

1 COMMENT

  1. Strano che tu non abbia citato Pirandello “ Uno nessuno centomila”. Abbiamo tutti un’alta stima di noi stessi e cerchiamo conferme. Conosci te stesso, diceva Socrate! Ma davvero riusciamo a conoscerci e trovare i nostri difetti? O siamo tutti perfetti?!
    ( Ciao Cristina! Non ti trovo più su Facebook, non siamo più amici?! Boh! )

LEAVE A REPLY

Please enter your comment!
Please enter your name here