La fine di tutte le cose

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L’estate sta finendo, lo dicono le piogge e i temporali che si presentano talvolta di pomeriggio a bagnare i nostri giorni e a rinfrescare i pensieri. Tutto finisce. In un tempo che sia considerato un ouroboro, l’anello in cui avvolge la storia ripetitiva e sempre uguale; o sia una retta lanciata verso un infinito in cui saremo luce o niente, nel piccolo spazio in cui si consumano le nostre fragili esistenze sperimentiamo la fine di ogni cosa.

Lo scrisse anche il filosofo tedesco I. Kant, nel 1794, in un saggio dal titolo La fine di tutte le cose in cui riprende tematiche che aveva già trattato nella precedente filosofia.

Ponendosi il problema del tempo, Kant aveva considerato che il tempo può essere inteso come durata e alla fine di qualcosa, questa entra nell’eternità, in un tempo che non finisce. L’eternità però, non potendo essere percepita da un’intuizione sensibile, diventa inconoscibile, cioè noumeno, elemento che non può essere oggetto di conoscenza ma può acquistare valore morale.

Non sono anni facili per il filosofo, ha già scritto le famose Critiche in cui ha esaltato il valore del pensiero ed ha una discreta fama ma nel 1793 un suo libro di argomento religioso viene condannato dal sovrano, Federico Guglielmo II, che ha introdotto in Prussia, il paese in cui vive Kant, la censura sugli scritti di argomento religioso.

Tuttavia Kant si interroga ancora sul valore e sull’importanza della religione nella nostra vita, soprattutto per gli elementi che non cadono sotto la lente dell’esperienza e dell’intelletto ma premono sulla ragione con domande a cui l’uomo non riesce a dare risposte. Perciò scrive il saggio La fine di tutte le cose, lo invia ad un amico editore che lo pubblicherà su Berlinesche Monatsschrift, rivista illuministica.

Per Kant, i giorni sono figli del tempo e il figlio più giovane sarà il giorno finale della vita, quello del giudizio in cui ogni uomo rivedrà il comportamento tenuto in ogni momento della propria esistenza. Di ciò potrà fare un bilancio, assolversi o condannarsi ma quando dalla durata passerà all’eternità, quale sarà il suo destino?

Due prospettive si aprono per il filosofo: quella unitaria che sostiene che tutti gli uomini, dopo un periodo di purificazione, conosceranno un’eterna beatitudine; quella dualistica per cui gli uomini saranno divisi tra eletti e dannati.

Non esiste la possibilità che tutti siano dannati perché questo mostrerebbe una sapienza che ha fallito il suo scopo o lo ha vanificato. Che senso, infatti, avrebbe la creazione di un uomo destinato ad essere condannato?

Tutto ciò, per Kant, rivela un bisogno dell’uomo, l’esigenza di crearsi un dopo, ma tutto ciò non può diventare dogma, queste convinzioni vanno al di là della capacità speculativa della ragione umana.

Così come l’idea di una fine del mondo che gli studi scientifici non sanno prevedere è per l’uomo comune terribile. All’idea della fine è spesso legata la consapevolezza della decadenza del genere umano i cui segni si ritrovano nell’ingiustizia dilagante, nell’oppressione dei poveri a causa di sfrenata dissolutezza dei ricchi, nella perdita della fede, nelle guerre sanguinose, nella perdita dei valori morali.

Altri invece pensano che la fine avverrà quando ci saranno eventi fisici come terremoti, tempeste, inondazioni, segni nelle comete o nel cielo.

Kant non crede che si realizzino queste possibilità, pensa invece che per l’uomo arrivi un momento in cui sente il peso della propria esistenza oppure sente che il progresso che egli stesso ha generato in modo avventato lo fa inciampare e incedere in modo insicuro.

<<La fine di tutte le cose>> scrive Kant << che passano per le mani degli uomini, anche se i loro scopi sono buoni, è una follia>>.

La saggezza è solo nel sommo bene, Dio, e saggezza umana sarebbe quella di comprendere che non tutto è per l’uomo comprensibile.

Lascio il testo di Kant perché alcuni suoi discorsi mi hanno riportato al presente. Un presente in cui è di fronte a tutti la decadenza dell’uomo che, secondo Kant, gli uomini considerano inizio della fine.

Io non penso questo, siamo in un momento difficile ma voglio credere che ci sarà un moto di orgoglio della dignità ferita, un ritorno a studi più seri e finalizzati ad acquisire meriti, non conoscenze opportune e produttrici di favori. Ci vorrà tempo, la classe politica che domina la scena pubblica dovrà fallire e riconoscere i propri errori per poter avere un ripensamento effettivo ed efficace.

Nei giorni scorsi è scomparso Gorbačëv, ultimo capo di Stato dell’URSS, negli anni ’90 del Novecento fece sognare intere generazioni di giovani di tutto il mondo. Grazie a lui ci fu la fine della guerra fredda che aveva pesato sui destini e sulle scelte mondiali; con la caduta del muro di Berlino, il mondo si avviò verso la pace e la collaborazione internazionale, sembrava che niente fosse meglio di questo.

Ricordo nell’estate del 1990, pochi mesi dopo il crollo del muro, un viaggio a Berlino per visitare ciò che restava del muro, andare nella Berlino est e vedere come si viveva in quella parte della Germania comunista, avere la sensazione di vivere nella storia, sognare un mondo finalmente felice, così era vivere in quegli anni.

Forse qualcuno non condividerà le mie idee ma esse per me sono state il cemento su cui ho costruito il mio essere, vivere la realtà con i piedi ben piantati per terra e sognare un al di là da venire. In questo senso mi sento molto vicina a Kant: logica sopra ogni cosa e aspirazione ad un infinito che per il filosofo significa aprire la stagione romantica della cultura europea.

Questi anni sono drammaticamente tristi, pandemia, guerre, rincari preoccupanti, politici mediocri, elettori disinteressati, in futuro costituiranno le pagine più noiose di un libro di storia; niente ideali, niente sogni, niente progetti, solo ricerca di potere, solo piatta monotonia.

Un unico modo per romperla: VOTARE! (votare con giudizio, non con superficialità).

Gabriella Colistra

Clicca sul link qui sotto per leggere il mio articolo precedente:

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