Il non-uomo e la tempesta

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La tempesta continuò ad imperversare violentemente al di fuori del Rifugio, l’acqua un oscuro ammasso di ombre nere come la notte, letale come una lama appena affilata, feroce come un branco di leoni rampanti pronti a scaraventarsi contro la selvaggina, pronti ad annientare ogni cosa sul loro cammino; torbide onde schiumose si scontrarono contro un cielo reso visibile solo da intermittenti e violenti fulmini violacei e contro lo sperone roccioso all’interno del quale l’uomo che non era un uomo osservava compiaciuto (con occhi non-occhi) e con un ghigno sulle labbra la furia impetuosa che si stava abbattendo su un mondo che non era più tale.

Leggere scie di fumo fuoriuscirono dalla sua bocca sottile e tagliente come carta mentre con una mano abbassava la  sua lunga pipa e, con un gesto dell’altra, chiudeva con un risucchio la finestra che si era aperto per analizzare.

Riflettere.
Indagare.

Lui non faceva altro che questo, da anni, viaggiando tra le terre più disparate esistenti, attraversando ogni sorta di civiltà, pericoli, selve oscure e fatate, città di dannati, città di beati… eppure ciò che più desiderava con ardore non era riuscito a renderlo suo.

Ma mancava poco.

Si trattava di un duro colpo all’onore da dover sopportare quando eri rinomato per i Grandi Mari e i Cinque Continenti esclusivamente per il tuo lavoro da cacciatore e trafficante di… cose alquanto particolari. Poco legali, insomma. Ma quando ne facevi un lavoro a tempo pieno, una volta che entravi in questo ambiente…era praticamente impossibile uscirne.

Diventava la tua unica ragione di sopravvivenza.

E forse poteva anche apparire eccitante quando non avevi nulla da perdere ma tutto da rischiare: per lui tutto ciò non era altro che il paradiso.

Il Mercato bramava molte cose; e se quelle determinate cose – la vita, la morte- dipendevano esclusivamente da te e dalle tue scandalose pratiche…

Avevi tutto nelle tue mani.
Potere.
Denaro.
Schiavi.
Animali.
Magia.

Ma, come nel gioco d’azzardo, bastava una puntata sbagliata per perdere tutta questa meraviglia e decadere al livello della feccia, talmente tanto malfamato e inutile  da essere trattato peggio di uno schiavo frustato e baciato dal rabbioso calore delle fiamme che lo consumano, come una candela, fino ad esaurirsi.

Cosa non si fa per la gloria, per la fama? Si è disposti addirittura a morire per esse. E ciò l‘uomo-non uomo lo sapeva fin troppo bene.

E aspettava.
E rideva (silenzio).
Lui sapeva.
Poteva vincere.
C’era quasi.
Solo un altro poco (la partita era quasi vinta).

Un corvo gracchiò in un corridoio lontano, l’eco tremendamente strascicata, ma chiara e ridondante in un silenzio tombale, e l’uomo-non uomo si preparò ad accoglierlo nel suo laboratorio dalle pareti di fredda ossidiana, illuminate da fioche candele fluttuanti che poco lasciavano intravedere della sua oscurità.

E forse era meglio così.

Si sedette con calma sulla sua poltrona imbottita in un angolo della stanza, l’unico suono ora lo sgocciolio del sangue proveniente da un lavoretto lasciato incompiuto sul tavolo e che, come un orologio –clic, clac, tic, tac- scandiva ogni angosciante minuto, ogni tremendo e lungo secondo che trascorreva in attesa della tanto agognata notizia.

E, pazientemente, restò  immerso nel buio più totale, la stessa che ora stava inghiottendo il mondo esterno senza pietà alcuna.

E nessuno tranne lui e pochi altri sapeva che tragedia si sarebbe presto abbattuta.

Sorrise impercettibilmente, il corpo mosso da spasmi cadenzati, pregustando di già il caos che si sarebbe scatenato, probabilmente e soprattutto anche a causa sua.

Ma aspettava questo momento da una vita e non intendeva per nulla al mondo lasciarselo sfuggire dalle mani, non quando la fine era così vicina.

E questo era solo l’inizio.

Si preparò ad accogliere il suo fidato corvo che, con ultimo gracchio secco, si posò delicatamente sulla sua mano, chinando il capo come in segno di riverenza; i suoi occhietti rossi brillanti come rubini.

Il non-uomo lo carezzò amabilmente- per quel che poteva-, lisciandogli le piume scure soffici ed umide.

“Ottimo lavoro mio fedele compagno” sussurrò, la voce come un sibilo di vento invernale, freddo e pungente, ma affabile.

Il tempo sembrò fermarsi.
Il sangue smise di sgocciolare sul pavimento, congelandosi in grumi di ghiaccio secco.
La stanza si gelò ancor di più di quanto già non fosse e la Morte stessa parve sospirare e attendere paziente, reclamando a sé ogni cosa e trasformandola in una tomba di ombre che si solidificarono in una cortina di fumo nero e inodore.

Andò ad avvolgere i due compagni come in un crudele e mortale abbraccio, aspettando il momento cruciale in cui li avrebbe portati con sé.

“Non ancora, mia cara, non ancora, attendi un altro po’ mia dolce amica. Non oggi. Non oggi” disse lui, una tenue ninnananna e una sommessa preghiera ad una vita-morte che sarebbe nata di lì a momenti.

E la nebbia si dissolse.

La sagoma di una giovane donna si manifestò all’entrata della stanza, silenziosa, sensuale e pronta all’attacco: con un sorriso furbo e ferino a trentadue denti  -l’unica caratteristica visibile nel buio rischiarato dalle fioche candele- si inchinò, accompagnata dalle braccia.

I loro acuti occhi si incontrarono, con la consapevolezza di aver appena vinto una scommessa che ogni singolo essere sulla terra avrebbe perso amaramente.

Lei sorrise.
Lui sorrise.
Il corvo gracchiò di nuovo, più forte.
Il ghiaccio si frantumò in mille, minuscole schegge.

“Mio signore, l’abbiamo trovata”…

Clicca sul link qui sotto per leggere il mio articolo precedente:

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