Il lutto

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Si avvicina il 2 novembre, data della commemorazione dei defunti, vi racconto in breve, ciò che accadeva qualche anno fa.
Ogni epoca ha avuto un modo diverso di vivere un lutto, sia in Calabria che in altri luoghi. Mi soffermo sulla Calabria di qualche anno fa, quando il passaggio a miglior vita, per forza di cose che andrò a raccontare, avrebbe condizionato tutti i componenti della famiglia e degli amici. Se il defunto moriva in seguito ad una malattia tutto era già pronto per lui, abito scuro, scarpe, calze, il fazzolettino bianco da inserire nel taschino, questo se si trattava di un uomo. La donna sposata invece, avrebbe indossato abiti neri, mentre una vergine, era quasi identificata come la sposa del “Signore”, quindi vestita di bianco. Nelle case più abbienti avrebbero preparato un abito da sposa! Appena avvenuto il decesso la cosa da fare immediatamente era cambiarsi d’abito, mentre i più volenterosi, si apprestavano a vestire il defunto, dopo che il barbiere lo aveva sbarbato. Trattandosi ovviamente di un uomo! Le donne di casa, col viso graffiato per la disperazione, avrebbero coperto il capo con il foulard nero, indossato a mò di paraocchi, per dimostrare un vero dispiacere, il nero fazzoletto doveva sporgere almeno di cinque cm dal volto. Poi calze, scarpe, camice e speso anche i gioielli, come gli orecchini, diventavano il simbolo del lutto. Per l’uomo era diverso, a lui era consentito l’abito grigio ma l’importante era portare la fascia nera al braccio e il bottoncino al petto, ricoperto di tessuto in panno nero. Per i primi trenta giorni non avrebbero rasato il viso, diventando l’immagine del dolore. Al portone di casa, inchiodavano una fascia in raso nero, che sarebbe rimasta per sempre, fino a quando le intemperie non l’avrebbero distrutta e scolorita. Ancora oggi, nei portoni delle vecchie case ormai disabitate, si nota una vecchia fascia nera, consumata dal tempo. Anche alcuni oggetti di casa, ad esempio le cornici con l’immagine del caro estinto, avrebbero “indossato” il lutto. Consisteva in un nastrino nero messo di sbieco all’angolo sinistro in alto della cornice. Era in uso anche la lugubre pratica della foto di famiglia col defunto, sostenuto in piedi dai parenti o seduto sulla sua poltrona preferita, con intorno i suoi cari. Dopo tutto questo, le famiglie più facoltose, assoldavano delle donne che per denaro avrebbero pianto dietro alla bara coi capelli sciolti. Erano le prefiche o “ciangiuline” che durante il corteo funebre, tessevano le lodi del defunto, una pratica questa, dalle lontani origini greche. L’ultima uscita si faceva il giorno del funerale, il defunto si trasportava spesso su un carro trainato dai buoi o dai cavalli, a secondo del ceto sociale e delle possibilità economiche. Il corteo funebre, dopo la benedizione del parroco, prima di andare al cimitero, ricalcava le orme del defunto e quindi si passava a salutare i luoghi a lui cari, come la casa paterna, il luogo di lavoro eccetera… una volta lasciato il feretro nelle mani del becchino, i convenuti tornavano tutti nella casa del morto e lì si teneva il lutto ed era il luogo, dove tutti andavano a porgere le loro condoglianze anche nei giorni successivi. Le imposte chiuse e un bisbiglìo di preghiera, singhiozzi e lacrime accoglievano i visitatori. Le donne non sarebbero uscite mentre gli uomini si sarebbero occupati, insieme al becchino della tumulazione e delle pratiche burocratiche, dopo di ciò, anche loro si sarebbero rinchiusi tra le pareti domestiche per ben trenta giorni. L’unica uscita concessa era quella per la messa dei tre giorni, del settimo giorno e poi il trentesimo, che avrebbe liberato tutti dall’obbligo di stare in casa. Durante i trenta giorni, erano parenti e vicini ad occuparsi dei bisogni della famiglia colpita dal lutto, portando anche il cibo già cotto, perché era vergognoso fare la spesa. Durante la veglia funebre, non si toccava cibo ma arrivava caffè fumante e pasticcini secchi da consumare tra una lacrima e un de profundis. Se il defunto era un padre di famiglia, c’erano delle regole ben precise da rispettare: la moglie avrebbe portato il lutto per sempre e le figlie femmine, avrebbero smesso il lutto, il giorno del matrimonio indossando l’abito da sposa. Se il capofamiglia avesse esalato l’ultimo respiro dopo il matrimonio della figlia, quest’ultima come la madre, avrebbe portato il lutto a vita. I ritmi della vita moderna non consentono più certe abitudini, come quella di restare chiusi in casa per trenta giorni e non sbarbarsi per tutto il periodo. Le cose cambiano e non ci si scandalizza più se la vedova non veste di nero o se solo dopo una settimana, la figlia indossa un cappello rosso. A prescindere da tutto, il vero lutto, il vero dolore per la perdita di una persona cara, risiede nel cuore e non nell’apparenza!

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