Felicità? Sì, ancora sulla felicità, quella condizione di benessere legata alla realizzazione di un desiderio. Nonostante ne abbia già parlato, torno sul tema: interessante, presente nella vita di ogni uomo e studiato da molti filosofi. Ma che cos’è la felicità? Il concetto sfugge, non si fa afferrare, cambia con le situazioni, varia a seconda delle persone e dei loro modi di pensare.
Per i filosofi antichi la felicità è ciò che l’uomo soprattutto cerca, la considera un bene supremo che va raggiunto con l’attività della parte migliore dell’anima, quella capace di connettere tra loro virtù e felicità. Questo è ciò che pensa Aristotele: una vita virtuosa, guidata dalla parte migliore di noi, l’anima intellettiva, è una vita già condotta felicemente che vede nella felicità il fine ultimo da realizzare. Inoltre, essa è autosufficiente, cioè desiderabile per se stessa e perfetta nel suo essere. Così scrive: << Infatti una sola rondine non fa primavera, né un solo giorno; e così un solo giorno né poco tempo non rendono l’uomo neppure beato e felice >> (eudaimonia).
Per Epicuro la ricerca della felicità non è qualcosa di alto, trascendente com’era nei filosofi precedenti, è nella vita stessa, sta nell’agire bene e nella ricerca del piacere che diventa il criterio di distinzione tra bene e male (edonismo).
Per Tommaso D’Aquino, filosofo cristiano, la felicità risiede nella visione beatifica di Dio, visione che, però, avverrà solo dopo la morte.
Nei tre filosofi che ho ricordato, pur attraverso le differenze, si può notare che la felicità, per gli antichi, era raggiunta con la ricerca individuale e questa idea rimane per secoli.
E’ nel periodo dell’illuminismo che si inizia a pensare che la felicità sia un bene collettivo e il compito di realizzarla sia dello stato che attraverso l’educazione e la legislazione crea le condizioni perché gli uomini siano felici.
Claudie – Adrien Helvétius (1715 – 1771), medico alla corte di Luigi XV re, re di Francia, e amico di Voltaire, è convinto che la filosofia ricerchi la felicità in elementi che possono essere favoriti da compiti assegnati allo stato come quello di tutelare e difendere la vita dei cittadini, fornire sicurezza e pace. Helvétius è convinto che la felicità non si sia ancora affermata nella società del tempo e a tal proposito scrive: << non si deve compiangere la cattiveria degli uomini, ma l’ignoranza degli legislatori che hanno sempre considerato l’interesse degli individui opposto all’interesse generale>>. Egli infatti pensa che se l’educazione e una buona legislazione inducessero l’uomo ad agire bene e ne premiassero le capacità, questi troverebbe la felicità nel benessere pubblico e a questa si affiancherebbe naturalmente anche quella privata.
Nello stesso periodo anche Paul Thiry d’Holbach (1723 – 1789) ritiene che la felicità sia sociale e si basi soprattutto sull’utilità, pensa infatti che l’uomo non possa realizzare da solo ciò che considera necessario per la sua felicità. Dall’illuminismo in poi, si afferma quindi l’idea che la felicità sia collettiva, sociale e culturale.
Ogni tanto qualche voce si leva a dissentire da questa posizione ma è Sigmund Freud (1856 -1936), padre della psicanalisi che nel 1929 pubblicò Il disagio della civiltà, a chiedersi come possa l’uomo trovare la felicità in una società che soffoca e impone sacrifici alla sessualità e all’aggressività. Egli infatti nota che l’uomo vive una tensione tra il volere tutto e subito e la necessità di dover rimandare il soddisfacimento di un desiderio che deve anche essere orientato su mete accettate dalla società; è questa la tensione tra il principio del piacere è il principio di realtà. Forse i primitivi riuscivano ad essere felici perché non avevano restrizioni alle pulsioni e tuttavia l’insicurezza dominava il loro vivere:<<L’uomo civile ha barattato una parte della sua possibilità di felicità per un po’ di sicurezza >>. S. Freud
In questa situazione, l’uomo rivolge la propria attenzione ad una molteplicità di oggetti, di persone, di prodotti materiali e culturali che lo dovrebbero rendere felice e sono invece segno di una rinuncia fatta per essere accettato in società e avere comunque per sé qualcosa di appagante e di sicuro.
Le tesi di Freud mi sembrano ancora condivisibili anche se, più avanti nel tempo, Herbert Marcuse in Eros e civiltà ha immaginato che in una società più ricca qual è quella occidentale si potrebbe vivere in modo più libero ma, considerando in modo più approfondito il tema ha concluso anche lui che non sia possibile una felicità sganciata dal contesto storico – sociale in cui l’uomo si trova a vivere ed operare.
Dagli anni ‘60 in cui scriveva Marcuse, sembra passato un tempo infinito, la società è cambiata ed è cambiata anche l’idea di felicità ma il disagio di cui parlava Freud c’è sempre, il bisogno di riempire un vuoto esistenziale c’è ancora.
In tempi di globalizzazione, abbiamo a disposizione una vasta gamma di prodotti che promettono di farci felici e, possibilmente, felici di consumare per fare la felicità dei produttori. Non è così, il consumismo senza limiti produce piuttosto un edonismo infelice provocato dalla rincorsa ai beni superflui che si consumano e si usano in un continuo susseguirsi che produce frustrazione e infelicità. Questo perché non sono i beni di consumo a rendere felice la nostra vita ma sono i beni relazionali, i rapporti interumani, i legami di amicizia e di amore.
Giovanna Zucconi in un articolo sull’Espresso del 25 febbraio 2004 scriveva: << Non si vive di sola economia, neanche nelle scienze economiche: la parola “felicità” è un talismano teorico che sconvolge le antiche certezze. Il più lapidario è il premio Nobel Amartya Sen ” il puro uomo economico è in effetti assai vicino all’idiota sociale”. E il più sconfortato è Oswald “la maledizione dell’umanità è sentirsi costretti a guardare sempre l’erba del vicino. Siamo consumati dal relativismo”. Consumatori consumati>>.
Si affaccia quindi una domanda di nuova felicità, sarà l’uomo capace di trovare una risposta?
La troverà in una dimensione privata o pubblica? Durerà un attimo o sarà un modo di vivere?
Le domande si affollano… bisogna cercare ancora.
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Gabriella Colistra