Donne e danni in pieno Rinascimento

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Donne e danni in pieno Rinascimento.

Nelle Corti rinascimentali anche le donne avevano a cura le lettere e le arti: una famosa Mecenate, per entrare subito in argomento, è stata Isabella d’Este, marchesa di Mantova che, secondo le fonti, conosceva a menadito il latino ed il greco, suonava il liuto, arricchiva la sua biblioteca di eleganti volumi, ornava la corte di oggetti rari e preziosi (cofanetti, orologi, statue, artistiche carte da gioco, etc…).

Esempio non raro, il suo, nel panorama vivace degli “studia humanitatis” d’allora.

Oltre a lei come non ricordare Beatriz Mendez De Luna o Lavinia Fontana (la pittrice di Papa Gregorio XIII)?

Lavinia Fontana – autoritratto nello studio, firmato e datato 1579
(Collezione di autoritratti agli Uffizi).

Detto per inciso, nel Cinquecento ci sono persino donne poetesse che scrivono bei versi in volgare ed anche in latino, così come tante altre alle prese con le lettere antiche, riservate in precedenza soltanto al genere maschile.

Tuttavia, malgrado i venti favorevoli propendano per una maggiore istruzione femminile, molti umanisti pensano che conoscenze troppo vaste possano essere inutili per le donne e persino dannose, con il rischio paventato di renderle litigiose e disobbedienti.

La virtù dell’obbedienza, infatti, è molto raccomandata alle donne, che per tutta la vita sono sottoposte per costrizione e contrizione all’autorità di qualcun altro (prima il padre, poi il marito) e, tra le altre cose, impotenti nel far valere la loro volontà.

Solo le vedove, a volte, erano libere di decidere da sé: un paradosso, vero!?

Come nel Medioevo dovevano assolutamente mostrarsi prudenti e riservate, perché la minima leggerezza era considerata una colpa e giudicata con grande severità.

Sul finire del XV secolo, a Firenze, una ragazza della famiglia Strozzi mise in pericolo la sua reputazione ed il suo futuro matrimonio, perché in una giornata d’inverno si sarebbe fermata a giocare nientepopodimeno che a palle di neve con alcuni giovani della sua età.

Di solito le figlie femmine non erano gradite, perché sposandosi avrebbero dovuto portare al marito la dote, cioè la parte dei beni di famiglia che veniva loro assegnata al momento del matrimonio: che pasticciaccio, allora!

Il grosso dell’eredità andava invece ai figli maschi: al riguardo la legge era inflessibile nella sua legiferazione androcratica.

Nell’Europa del Rinascimento nessuna ragazza, difatti, poteva sposarsi senza dote: un brutto guaio, insomma!

Nel XV e nel XVI secolo, a Firenze, bambine di soli 6-8 anni erano mandate a lavorare come domestiche presso ricche famiglie, che in cambio s’impegnavano a dar loro una liquidazione da TFR, potremmo dire, quando sarebbe stato il momento.

Oppure i padri fiorentini depositavano per tempo una certa somma presso una banca, il Monte delle Doti, e facendo fruttare gli interessi, si procuravano il denaro patrimoniale per le loro figlie.

Siamo all’assurdo: il primo investimento anti-danno di genere!

Della dote, che era causa di tante preoccupazioni per le famiglie, la figlia non poteva disporre in alcun modo, perché passava dalle mani del padre a quelle del marito: questi la usava come voleva, spesso senza neppure avvertire la moglie.

Proprio così, secondo i suoi capricci, falsamente declinati al femminile, per un pregiudizio di atteggiamento, che ancora oggi è attaccato ad ogni fiocco rosa in arrivo.

Pare siano falsi storici…

Francesco Polopoli

Insegnante nel Liceo Classico “Francesco Fiorentino” a Lamezia Terme.

È filologo, esperto di filologia neotestamentaria e divulgatore gioachimita, ha partecipato a convegni di italianistica, in qualità di relatore sia in Europa che in Italia.

Scrive per alcuni giornali articoli di storia, letteratura, arte ed anche testi inerenti all’attualità ma sempre rivisitati alla luce della sua eclettica e profonda preparazione.

Francesco Polopoli fa parte dell’Associazione “Italia solidale” per le missioni nel mondo ed è ex componente Cultura ed Istruzione della provincia bergamasca dove ha lavorato in un progetto di integrazione ed alfabetizzazione per alunni stranieri.

Nel suo percorso il Professor Polopoli ha pubblicato anche un libro.

Saggista di lavori dialettologici a Bergamo, divulgatore delle lingue classiche con realizzazione di strumenti didattici, Polopoli è stato commissario del “Certamen ovidianum“, in occasione del bimillenario di Ovidio.

E’ stato inoltre relatore sull’artista calabrese Francis La Monaca in collaborazione con l’Unesco di Treviglio.

È componente del “Centro Internazionale di Studi Gioachimiti“, nonché dell’Associazione “Il Cammino di Gioacchino da Fiore”.

Sulla vita dell’abate, citato da Dante anche nella Divina Commedia, ha scritto saggi storici e realizzato anche dei cortometraggi.

Insieme a Maurizio Carnevali e a Francesca Prestia, è autore della fiaba musicale “Ingrid e Gerlando”.

Clicca sul link per leggere il mio articolo precedente:

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