Caro diario…

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Non inizia proprio così il Diario che ho tra le mani e che fu scritto a partire dal 1833 fino alla morte dell’autore. Il Diario di cui parlo e quello di Søren Kierkegaard, filosofo danese vissuto tra il 1818 e il 1855, che in una sterminata raccolta di osservazioni, appunti e riflessioni, dà informazioni sui suoi interessi e sulla sua formazione culturale.

Il discorso che si sviluppa nel Diario è discontinuo e risente dei cambiamenti di umore del filosofo il quale, però, nello scrivere rivela il suo animo come non fa nelle opere destinate alla pubblicazione.

Il Diario non sarà pubblicato dal filosofo in vita, nei suoi pensieri forse c’era l’idea di non renderlo pubblico, quindi apre il suo cuore, esprime ogni intimo pensiero; qui c’è e si trova anche l’origine di molte parti delle opere pubblicate.

Il fine dell’opera non è la pubblicazione, egli scrive di voler vedere chiaro in se stesso e sa che non è importante quello che si conosce, quanto sapere ciò che si deve fare. Sa che per far questo deve capire quale sia l’idea che vuole seguire e per la quale voglia vivere o morire.

Al filosofo, dunque, non interessano tanto i grandi pensatori che hanno costruito sistemi colossali di pensiero; gli interessa <<scandagliare e risolvere enigmi >>. Per poter esprimere nel modo migliore il suo interesse, ha bisogno di una scrittura mobile, concreta, vicina al dialogare socratico.

Può sembrare curioso che Kierkegaard si rifaccia per la sua scrittura ad un filosofo, Socrate, che non scrisse nulla, ma è il dialogare serrato con se stesso che lo incalza come faceva Socrate con i suoi interlocutori, dal filosofo greco apprende l’ironia, diffusa in tutta la sua opera e poi, per Kierkegaard, la scrittura e la vita si identificano.

Scrittura e vita si identificano soprattutto nel Diario dove si comprende che i problemi con il padre, che lo accompagneranno sempre, sono forse dovuti al fatto che il padre aveva l’ambizione di vedere suo figlio sostenere un << esame di teologia >> che gli avrebbe dato molto onore e che fu l’educazione ricevuta a fargli conoscere ciò che sarebbe stato il problema di tutta la sua vita: repulsione e attrazione per il problema religioso.

Il Cristianesimo uccide l’io perché rifiuta tutto ciò che è istintuale e naturale, nello stesso tempo è l’unica cura radicale della disperazione a cui ci condanna la nostra finitezza e il nostro amore per le cose del mondo.

Il padre avrebbe voluto salvarlo dalla mondanità, per questo gli aveva insegnato un cristianesimo disumano; il filosofo visse un primo periodo di dissipazione, poi si avvicinerà al Cristianesimo che definirà << l’unico pozzo da cui si può attingere acqua >>, ma con ideali troppo alti imposti agli uomini.

L’idea rigida del senso della colpa e del peccato, infatti, condizionarono tutta la sua vita, non riuscì mai a perdonarsi di essersi intrattenuto, forse, in un momento di debolezza, con una prostituta.

Condannato a vivere in tale ambiguità, nella stessa ambiguità visse il rapporto con Regina, la donna con cui fu fidanzato solo per un anno ma che amò per tutta la sua breve vita. Così la ricorda nel Diario:

<< Graziosa ella era veramente la prima volta che la vidi: graziosa nel suo abbandono, era commovente in senso nobile, non senza una certa sublimità nell’ultimo momento della separazione. […] Una cosa trovai sempre in lei, una cosa che vale per me un elogio eterno: silenzio ed interiorità. E un potere essa aveva: uno sguardo adorante, quando supplicava, che avrebbe potuto commuovere i sassi. E sarebbe stata una beatitudine poter incantarle la vita, una beatitudine il vedere la sua beatitudine indescrivibile. >>

Graziosa ella era, la grazia di Regina lo conquista e poi, silenzio e interiorità, quello che lui cercava e che consente a lei di comprendere e interpretare i difficili testi che il filosofo scriveva e che lei leggeva. Regina, però, faceva parte di quel finito, di quell’umano con cui, pensando di scegliere Dio, non sarebbe potuto rimanere.

Dopo la rottura del fidanzamento, la incontrò più volte, a lei dedicò le sue opere tra cui il capolavoro Aut – Aut, <<quel lettore >> a cui si rivolge nella stesura delle opere è lei; lei leggerà con grande interesse e avrà stima di lui, sempre.

Ancora dal Diario

<< Amata, essa lo era. La mia esistenza esalterà la sua vita in modo assoluto. La mia carriera di scrittore potrà anche essere considerata come un monumento a sua lode e gloria. Io la prendo con me nella storia. E a me, che malinconicamente non avevo che un desiderio, cioè di incantarla: là, nella storia questo non mi sarà negato, là io avanzo al suo fianco. >>

Storie d’altri tempi, di ininterrotte fedeltà, di amore per un’idea che riempie la vita. Regina si sposerà con un altro; questo incoraggerà facili ironie sull’illusione del filosofo di essere ricambiato nel suo amore, di fatto i due non interruppero il rapporto che durò, forse per sempre. Kierkegaard, alla sua morte, lasciò a lei tutti i suoi averi.

Non so perché ho ripreso questa storia di cui avevo già scritto, non è un ritorno romantico ad una storia bella e infelice, è un ritorno logico ad un’ambiguità, quella che tante volte prende noi umani e ci fa compiere cose insensate di cui ci pentiamo ma non sappiamo come rimediare.

Così leggo la storia di Søren e Regina, due giovani innamorati, colti e con interessi comuni che per motivi incomprensibili a noi, semplici persone, rinunciano alla piena felicità, vivendo nel silenzio, che immagino lacerante, un amore di cui non si deve dire.

Ma la vita e la filosofia di Kierkegaard è questa, dialettica, inafferrabile, insieme poetica, come egli molte volte si sentiva, poeta capace di dire alla donna che ama le parole più belle; pungente, a volte, come il pungolo che sentiva nelle carni e che lo fa essere diverso, unico, il Singolo che egli sa di essere.

Complicata, difficile e perciò attraente e affascinante la filosofia di Kierkegaard, disperatamente amata fin dal primo incontro, ogni tanto ritorna alla mente e mi impone di scrivere di lui, di visitare la sua malinconia senza fine, di sorridere ogni volta che incontro la sua profonda e socratica ironia.

In questi giorni caldi e lunghi è una sfida per la fiacca e per l’intelligenza ma basta aprire il Diario per trovarsi in mezzo ad una profonda umanità che analizza se stessa e non ti dà spazio per rinunciare alla lettura.

Sere fa, guardavo in tv la partita Inghilterra – Danimarca. La Danimarca ha fatto tutto, rete e autorete, regalando agli avversari la possibilità di vincere, come poi è stato.

Kierkegaard è danese, nato a Copenaghen, perdonatemi l’impertinente paragone, fa rete e autorete nel suo Diario e nella vita, forse fu allora, durante la partita, che mi tornò in mente.

Stranezze della mente, in un’estate calda, non solo per le temperature.

Gabriella Colistra

Clicca sul link qui sotto per leggere il mio articolo precedente:

5 COMMENTS

  1. Tralasciando FORFORERENS DAGBOG (Diario del seduttore) di Soeren Aabye Kierkegaard, ottimo l’input, professoressa Gabriella, per introdurci al “Pascal più moderno”, com’è definito il Kierkegaard da R. Jolivet.
    La filosofia esistenziale kierkegaardiana consiste in una filosofia della scelta tra diverse possibilità di vita. I primi due stadi del ritmo del suo pensiero, l’estetico e l’etico, sono superati
    (a causa della noia, della malinconia, o dell’imperscrutabile fede) dallo stadio religioso, l’unico che abbia validità assoluta.
    L’inquieto e sconcertante fidanzato dell’ingenua Regina Olsen, come documentano non poche pagine del Diario, sembrano scritte per disamorarla.
    Infatti edonismo, erotismo, estetismo furono trascesi e sublimati quando egli si volse a traguardi religiosi.
    Kierkegaard ha scritto nel suo Diario: ” E’ regola di delicatezza quando si scrive, utilizzando gli avvenimenti della propria vita, non dire mai la verità, ma tenerla per sé e lasciarla soltanto rifrangersi sotto angoli diversi “.
    In ” FRYGT OG BAEVEN DIALEKTISK LYRIK
    OF IOHANNES DE SILENTIO ” – Timore e tremore / Aut-Aut (Diapsalmata) – il Nostro precisa che: la priorità assoluta del rapporto a Dio e perciò il distacco dello stadio religioso come supremo vertice dell’esistenza e fondamento dell’etica, come il protagonista Abramo è disposto a sacrificare il figlio Isacco.
    Grazie, professoressa Colistra,
    Suo Michele DI GIUSEPPE

  2. Gentile Michele,
    leggo con immenso piacere le sue considerazioni su Kierkegaard. Le riflessioni sul tema religioso occupano gran parte della sua filosofia ma non gli fanno compiere quel passaggio che sarebbe necessario per raggiungere una pienezza di essere; non si farà prete e questo sarà per la sua indecisione. L’ingenua Regina Olsen, che poi tanto ingenua non era, occupa buona parte dei suoi pensieri ed è proprio per lei che scrive Timore e tremore, lo dice nel suo Diario, forse voleva farle comprendere i motivi del suo abbandono e del non ritorno.
    Lasciando da parte tale problema, ho letto, negli anni, tante volte Timore e tremore e non ho mai trovato parole più profonde e più drammatiche per descrivere l’angoscia di un padre che sa di dover uccidere il proprio unico figlio. E’ questo il lato crudele di una fede che chiede troppo, ma è anche l’unica fonte d’acqua inesauribile.
    Complessità, senza questa Kierkegaard non avrebbe scritto la mole imponente di opere che ha composto e scritto nel modo in cui le ha scritte.
    La ringrazio tanto e la saluto cordialmente,
    Gabriella Colistra

  3. Concentriamoci sull’eroe della fede: Abramo.
    Essere e vivere ciò che si crede costituisce la “dialettica qualitativa” propria del cristianesimo (Cft.: Diario, t. XII).
    Come si fa a diventare cristiani?
    Denunciando il tradimento della ragione spinoziana di Lessing ed Hegel e concludendo il “salto” della fede.
    La situazione di Abramo è di carattere etico ma con fondamento religioso: ” Saaledes var Abraham Ofring af Isaak en religieus Akt, selv om Abraham ellers til daglig levede efter bestemte etiske Krav (Del resto l’offerta di Isacco da parte di Abramo era un atto religioso, anche se Abramo viveva quotidianamente con una precisa forza etica /G. Malantschuk, Indforelse i Soren Kierkegaards Forfatterskab, Copenaghen, 1953, p. 48).
    Il Nostro, diversamente dal moralismo orizzontale dell’immanenza, la chiama “sospensione teleologica dell’etica” nella quale il Singolo (Abramo od ogni vero credente) diventa più alto del generale, quale è teorizzato nella Metafisica dei Costumi di Kant e nella Filosofia del diritto di Hegel. (Cft. l’introduzione all’edizione curata da N. Thulstrup, p. 11 sgg. e C. Fabro, La negazione assurda, Quadrivium 1981, pp. 434-488).
    V’è, tuttavia, un altro versante, di opposizione e rifiuto della fede che salva, anche per Kierkegaard ed è il demoniaco (v. la leggenda di Agnese e il Tritone).
    Abramo, l’eroe.
    Il suo gesto incarna l’essenza della religiosità e ci porta alla soglia della fede cristiana: essa è il fondamento della morale, non la morale il fondamento della fede.
    Abramo, quindi, è il vero credente che riesce a camminare anche al buio e Kierkegaard ci da un’analisi esistenziale del silenzio religioso nelle varie sfere della vita dello spirito.
    Lei, professoressa Gabriella, con i suoi input ci addita sempre una luce all’orizzonte.
    Cordialmente, Suo Michele DI GIUSEPPE

  4. Gentile Michele, grazie ancora per la definizione della posizione di Abramo e del suo rapporto con la religione. L’opposizione di Kierkegaard alle posizioni di coloro che si affidavano alla ragione in campo religioso direi che è quasi originaria. Ironicamente direi che il padre aveva condizionato bene , secondo il suo parere, il figlio regalandogli l’infelicità.
    Troppo complesso Kierkegaard per una sintesi di poche righe.
    La saluto, con stima e cordialità,
    Gabriella Colistra

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