Ci sono momenti, nella nostra vita, in cui ci sentiamo sospesi, in attesa di qualcosa che deve avvenire, il futuro ci sembra pieno di incognite e interrogativi senza risposte.
Oggi non sappiamo come andrà l’anno scolastico per i problemi legati alla possibilità dei contagi, non sappiamo cosa il governo farà dei miliardi che l’Europa è disposta a concedere per la ripresa italiana, che ci auguriamo avvenga dopo la crisi che purtroppo è ancora in atto. Ci mancano i bei viaggi, piacere per gli occhi e alimento per l’anima, gli incontri con gli amici in piena sicurezza e tanto altro.
Proprio in questi momenti sento il bisogno di tornare a quelle voci che arrivano da lontano e infondono fiducia, speranza e un po’ di consapevole distacco dalle cose che ci affliggono. Sono le voci di quei filosofi che parlano della vita, che non si perdono nei dotti e astrusi ragionamenti che pure in alcuni momenti catturano e affascinano la mente.
Oggi voglio ricordare i Saggi (1580 e 1588) di Michel de Montaigne (1533 -1592) che oltre ad essere un libro innovativo nel momento in cui fu scritto, influenzò grandemente la cultura e la filosofia dei secoli successivi.
Già nel titolo, Saggi, troviamo il senso che l’autore vuole dare al libro, vuole “saggiare”, cioè “mettere alla prova” perché Montaigne non propone soluzioni ma offre considerazioni con le quali possiamo confrontarci. Infatti scrive:<< Se la mia anima potesse stabilizzarsi non mi saggerei, mi risolverei>>.
Il saggio è scritto in prima persona, ma l’io privato di Montaigne che viene narrato diventa io umano in generale; il saggio poi, come forma di comunicazione si allontana dai trattati e dalle summe medievali per trasformarsi in scritto molto breve, a volte un po’ più lungo, o addirittura un aforisma. Questa forma di scrittura avrà in seguito molta fortuna.
I temi trattati sono molteplici ma il fine a cui tende il filosofo è conoscere e descrivere l’uomo senza infingimenti, la cura che mette in questi descrizioni ne fa un anticipatore dell’antropologia scientifica.
Montaigne nel suo “vagabondare”, così definisce la sua scrittura, non ha una meta precisa ma sa che dopo il cammino si torna sempre al luogo che è più familiare. Il suo luogo è l’uomo che è, per natura, misterioso e imprevedibile ma basterà osservarlo per scoprirlo attraverso i suoi atteggiamenti.
<< Ogni atteggiamento ci scopre. Quello stesso animo di Cesare, che si rivela nel ordinare e preparare la battaglia di Farsalo, si rivela anche nel preparare divertimento e partite d’amore>>. Questa riflessione di Montaigne ci dice che l’uomo non cambia, è quello che è sempre stato, però, possiede una grande duttilità ed una ricca interiorità che gli consente anche di essere sorprendente e di stupire.
Il vagabondare e riflettere portano Montaigne a mettersi a nudo, come egli stesso scrive e nel raccontarsi emerge il grande amore per i classici latini e greci, ciò lo avvicina all’Umanesimo, ma da questo si allontana quando, all’esaltazione della dignità dell’uomo, contrappone la miseria e la fragilità umana, sentimento che deriva dall’aver amato le correnti scettiche del passato.
Inoltre, nella storia del passato, non va a ricercare la vita pubblica dei personaggi piena di atteggiamenti di superiorità e di eroismo, osserva la loro vita dal basso, nella quotidianità di gesti e comportamenti che spesso rivelano una condizione << tanto ridicola quanto risibile>>.
L’ironia è una caratteristica ricorrente negli scritti di Montaigne, la ritroviamo in tutti i Saggi, soprattutto in quelli in cui mette in evidenza la presunzione umana che spinge l’uomo a sentirsi superiore agli altri esseri che popolano la terra e si domanda:<< Quando mi trastullo con la mia gatta, chi sa se essa non faccia di me il proprio passatempo più di quanto io faccia con lei? >>
Negli anni in cui vive Montaigne arrivano ormai molte notizie dall’America scoperta da poco, nei Saggi mostra quello che con termine moderno, chiameremmo relativismo culturale. Egli infatti considera che selvaggi hanno una diversa mentalità, diversi costumi e abitudini e, poiché ognuno pensa che il suo modo di vivere sia il migliore, non abbiamo il diritto di giudicarli. Ciò non esclude che vivendo a contatto le diverse culture possano reciprocamente arricchirsi. Trovo di grande modernità ed equilibrio la sua tesi che meriterebbe più spazio, ma il pensiero di Montaigne che mi ritorna più spesso in mente in questo tempo sospeso, è il tema della morte.
Ho spesso davanti agli occhi la lugubre teoria di camion che portava salme di persone decedute ed ho ancora nelle orecchie le roboanti parole di chi sosteneva che fossero falsi montaggi. Non entro nel merito ma a quei camion in fila io credo e le parole di Montaigne, che è cristiano ma affronta in modo originale il tema, fanno pensare e consolano.
Egli sostiene che siano cose diverse la morte e il morire perché la morte non mi riguarda, è sempre degli altri e suscita un sentimento di orrore. Il morire, invece, ci appartiene, è un fatto naturale e va affrontato serenamente, come conclusione di un giorno ormai al tramonto.
Nei Saggi le pagine dedicate alla morte variano con Il trascorrere degli anni. Verso i quarant’anni anni Montaigne si ritirò a vita privata, pensando di essere prossimo alla morte. In quei momenti per lui il morire avrebbe dovuto essere vissuto alla maniera degli antichi stoici capaci di raggiungere un perfetto controllo degli stati emotivi. Non morì, con il passare del tempo notò che, in fondo, gli stoici pensavano troppo alla morte rischiando di rendere penosa la vita turbata da tale pensiero. Al contrario, il rimedio del volgo, era quello di non pensarci, ma il filosofo ritiene che questa sia una forma di accecamento e critica coloro che fanno il segno della croce quando si nomina la morte, quasi fosse il diavolo.
<< La meditazione sulla morte>> scrive Montaigne<<è meditazione della libertà. Chi ha imparato a morire, ha disimparato a servire>>, quindi forse meglio la serenità di Socrate che beve la cicuta sapendo che la morte è un evento naturale, o la serenità dei suoi contadini che si scavavano la fossa se qualcosa faceva pensare loro che la morte fosse vicina. Per ciò che lo riguarda, con la consueta ironia, scrive:<< Voglio che la morte mi sorprenda mentre sono nell’orto a piantare i cavoli >>, muore invece attendendo alla redazione dei suoi scritti. Complessivamente Montaigne ritiene che il morire abbia bisogno di serenità e forza d’animo, ma anche oblio, abbandono, leggerezza nel lasciare un vivere doloroso.
Non rattrista, nonostante il tema, il discorso di Montaigne perché condotto con molta naturalezza di fronte ad un evento che provoca più dolore in chi resta che in chi se ne va. Un grande dolore in questi giorni ha suscitato la morte di Willy, il ragazzino ucciso da quattro balordi; così la morte del sacerdote ucciso da un uomo in difficoltà che aveva più volte aiutato; come la morte della ragazza uccisa dal fratello per un amore “sbagliato”. Inutilità di gesti violenti, culto della forza, ingratitudine, mancanza di rispetto nei confronti degli altri, sono tutti casi che suscitano orrore e pietà.
Quanto vale la serena consapevolezza di Montaigne, grande filosofo, non adeguatamente studiato! Mi auguro che la scuola, che in questi giorni muove i primi passi del nuovo anno, lavori per formare persone con senso critico e mente aperta capace di guardare lontano con coraggio e determinazione, proprio come fece Michel de Montaigne, voce critica dell’Umanesimo.
Gabriella Colistra