Buongiorno, cari amici.
Oggi, con questa intervista, vi farò conoscere l’universo colorato del pittore Marcello Vandelli, mio caro amico.
Una dimensione in cui il pensiero, la fantasia e i colori si incontrano per realizzare straordinarie creazioni pittoriche.
Il nostro sodalizio amicale è nato su facebook grazie a Eleonora Tabarelli sul cui profilo mi capitò di vedere un dipinto di Marcello di cui rimasi colpita.
Eleonora, che lo affianca come curatrice, è una presenza silenziosa, ma costante che, ormai da diversi anni, si occupa, con la passione di chi ama l’arte da sempre, degli aspetti organizzativi, viaggiando di pari passo con la produzione artistica di Vandelli.
Le creazioni di Marcello non mi lasciano mai indifferente, accendono sempre dentro di me qualcosa e, l’emozione che mi attraversa, trova repentinamente il modo di concretarsi in una riflessione.
Le tematiche da lui affrontate sono sempre interessanti.
Allora Marcello, in molte tue interviste che ho avuto modo di leggere nel tempo, ho notato che spesso viene toccato solo il tema dell’arte pittorica. Vorrei partire da un concetto di ampia lettura. L’arte può assumere diverse forme di espressione. Ritieni ci sia una correlazione tra la pittura e la musica?
Esiste un legame tra i vari modi di fare arte. Un artista è colui che sente la necessità di esprimere se stesso attraverso una sua creazione. Può essere un dipinto, una scultura, una canzone. Non importa il mezzo, ma ciò che riesce a far emergere. Ci sono personaggi, come Kurt Cobain, che sono stati in grado di trasporre tutto il dolore nella loro musica, stridente, sofferta, finendo i concerti con la distruzione degli strumenti. Interpreto, e comprendo, questo atteggiamento spesso criticato. Rappresenta la liberazione, anche se solo apparente e momentaneo. Rimane sempre la necessità di creare qualcosa di nuovo, perché ciò che si è concluso non lenisce più il malessere che si ripropone più forte di prima. L’arte, quindi, in ogni sua accezione, diventa il tramite verso la tentata liberazione dell’animo.
Quanto è importante per te l’uso della parola nell’arte?
Per quanto mi riguarda è fondamentale. Ogni mio lavoro è contraddistinto da un titolo, volto a rafforzare maggiormente il soggetto rappresentato. L’uno è imprescindibile dall’altro. la scelta delle parole non è mai casuale, a volte addirittura nella mia mente si crea il titolo, sul quale poi lascio lavorare la fantasia, arrivando al risultato finale con forme e colore.
Quali sono stati i periodi artistici che hanno maggiormente segnato il tuo percorso artistico?
Sicuramente, come ho già citato più volte in diverse occasioni, l’arte degli anni ’70 e in particolare la Pop Art romana. Ma non solo. La Minimal Art, la Process Art, la Land Art, nella quale gli artisti si esprimevano concentrando l’attenzione, non più su supporti artificiali, ma sull’ambiente naturale. Non meno importante, la Performance Art. Mi riferisco in particolare all’artista Marina Abramovic, che con le sue performance metteva in risalto le relazioni tra l’artista e il pubblico e il conseguente contrasto tra i limiti del corpo e le possibilità della mente. Da ognuna di queste visioni artistiche, spesso anticonformistiche, ho tratto ispirazione, condizionando il mio modo di fare arte ed aggiudicandomi la possibilità di esprimermi liberamente come artista, acquisendo sempre maggiore sicurezza e fiducia nelle mie capacità.
Mi incuriosisce notare che in alcuni tuoi dipinti emerge la figura di un Indiano d’America. Si tratta di una semplice scelta dettata dalla necessità stilistica del momento o dietro ad essa si cela qualcosa di più profondo?
Non è casuale. Da bambino giocavo spesso con i miei amici nelle campagne intorno a casa, come fossero delle praterie americane, tra fango e balle di fieno. Il mio ruolo era quello del capo indiano che immancabilmente periva durante la battaglia con l’uomo bianco. Nessuno dei miei compagni riusciva a capire questa mia ossessione. Da sempre, la cultura dei Nativi americani mi ha affascinato. Principalmente per la loro perfetta armonia simbiotica con la natura. I loro nomi, ad esempio, rappresentavano con semplicità il rispetto e la devozione verso il grande Cerchio della Vita, dove ogni cosa ha un suo perfetto equilibrio. Agognavo la loro libertà, la cosa che più mi colpiva era il loro sguardo. Quello sguardo non si fermava mai all’orizzonte, andava oltre, come a ricercare una dimensione onirica, oltre la materia.
Fin dall’inizio della tua produzione pittorica hai rappresentato le persone come sagome vuote e senza volto, solo successivamente negli ultimi anni, le hai spesso sostituite con te stesso, come a renderti protagonista del dipinto. Cosa ti ha fatto decidere di esporti in prima persona?
Dipingere per me significa dare voce al mio universo interiore. Attraverso forme e colore cerco di esprimere il sentimento che mi appartiene in quel determinato momento. Le esperienze passate mi hanno lasciato segni indelebili, emozioni discordanti. Non solo piacevoli, ma ritengo che anche i ricordi dolorosi con il tempo si possano placare, assumendo nella mente una nuova dimensione. Soprattutto da questi nasce la forza di reazione, la necessità di raccontare. Le sagome, vanno oltre il ritratto, definendo un’individualità senza genere, perché sono fermamente convinto che attraverso l’arte si possano esprimere argomenti universali che accomunano ogni persona. In alcuni dipinti, sempre più spesso, ho iniziato a mettere me stesso, non certo per un eccesso di ego, ma per espormi nelle mie fragilità, dicendo “questo sono io, e sono come voi”. Rappresento me stesso per rappresentare chiunque.
La stampa fa riferimento spesso al Simbolismo Vandelliano. Identificare una corrente artistica riconducendola alla tua stessa figure mi sembra grandioso. Vuoi parlarne?
In certo modo sento che mi appartenga. A differenza del Simbolismo della seconda metà dell’Ottocento, i miei componimenti si basano, come peraltro ho detto poco fa, sulla mia esperienza personale, cercando di trasmettere a chi li osserva le mie emozioni. Seppur celata dietro ad un fare eccentrico e a volte sfrontato, trova spazio una profonda sensibilità. Chi sa andare oltre all’apparenza, riesce a cogliere nei miei quadri la mia vera essenza. La mia vita influenza la mia arte e al contempo l’arte influenza la mia vita. Mi piace osare, spesso, sia nei colori che nei soggetti, mettendomi a nudo.
I musei e gli spazi espostivi in genere propongono ogni anno opere di artisti del passato e contemporanei noti al pubblico, spesso in modo reiterato nel tempo, cambiando semplicemente location. Cosa ne pensi, da artista?
Credo si manchi di coraggio. Continuano a proporre cose già viste. Il concetto che vorrei esprimere è semplice. Ci vuole qualcuno che, anche a livello istituzionale, inizi a ricercare tra gli artisti emergenti, dando voce e spazio alla loro arte, senza nulla togliere ai grandi artisti. Nei secoli, ognuno di loro ha dovuto scontrarsi con la mentalità ottusa dell’epoca, trovando comunque qualcuno che gli ha dato credito e ha fatto in modo che oggi siano divenuti ciò che sono. Il circuito dell’arte attuale non offre possibilità, si basa sul mero profitto dei galleristi. Ripeto, ci vuole coraggio. Vanno scardinati i concetti, musei e gallerie dovrebbero spendere parte della loro immagine per dare visibilità a chi, nascosto nell’ombra, cerca di esprimere la contemporaneità. La fiducia dona forza e tra questi artisti potrebbe nascere qualche nuovo nome importante.
Ti ringrazio, Marcello per aver accettato di fare insieme a me questa passeggiata nel tuo mondo. È stato un momento bellissimo in cui l’amicizia e l’arte si sono trovate a vivere un felice connubio.
http://www.vandellimarcelloartist.com
Piera Messinese
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