Lettera ai Giornalisti di S.E. Mons. Francesco Savino
Vocazione e Missione
“consacrati alla ricerca della verità”
24 Gennaio 2022
Cari amici giornalisti,
anche quest’anno la precaria situazione sanitaria, dettata dall’avanzare di una pandemia che sembra non avere fine, mi costringe a rinunciare ad accogliervi in presenza, come per mia consuetudine, in occasione della Festa di San Francesco di Sales, ma non a rivolgervi alcuni miei pensieri. In un mondo come il nostro, spesso colmo di odio e di rabbia, ma anche di colpevole indifferenza, questo santo è l’esempio di come il giornalismo e la scrittura, possano essere un valido strumento non solo di evangelizzazione, ma di semplice umanità che tanto manca, oggi, se volgiamo lo sguardo attorno a noi.
Vorrei svolgere con voi una riflessione che attecchisca alle radici della vostra professione, per riscoprire altri due termini, che possono dare pienezza di senso alla vostra testimonianza quotidiana e cioè: vocazione e missione. Quando si usano queste due parole si è tentati di riferirle ad una dimensione religiosa della vita. Ma non è sempre e solo così. Mi piace qui citare le parole pronunciate da una grande giornalista e scrittore non credente, Tiziano Terzani, che in un’intervista, qualche anno prima di morire, così si espresse a proposito del giornalismo. “È un mestiere, ma non come tanti. Non è una cosa che fai andando a lavorare alle 9 del mattino e uscendone alle 5 del pomeriggio, è un atteggiamento verso la vita che muove dalla curiosità e finisce col diventare servizio pubblico: è missione. Non è un semplice mestiere – proseguì Terzani – non è solo un modo di guadagnarsi da vivere, ma è qualcosa di più, che ha una grande dignità e una grande bellezza, perché è consacrato alla ricerca della verità. Ecco il suo valore morale, avvertibile nel modo di raccontare, nel presentare i fatti”.
Che densa e significativa immagine questa dei giornalisti “consacrati alla ricerca della verità”, in un mondo che tenta di vampirizzare anche l’informazione più libera e genuina. È bello pensare che al giornalismo si arrivi non tanto scegliendo un mestiere, quanto lanciandosi in una missione, un po’ come il medico, che studia e lavora perché nel mondo il male sia curato. La vostra missione, cari amici giornalisti, è di spiegare il mondo, di renderlo meno oscuro, di far sì che chi vi abita ne abbia meno paura e guardi gli altri con maggiore consapevolezza e con più fiducia. È una missione non facile. È complicato pensare, meditare, approfondire, fermarsi per raccogliere le idee e per studiare i contesti e i precedenti di una notizia. È una professione che entra nell’anima e costringe a rimanere inquieti e vigilanti, senza stancarsi mai. Animati dalla curiosità di scoprire e dall’attenzione a quanto ci circonda, oserei dire: dalla cura.
In un sistema-informazione che veicola troppe parole abbaiate, gridate, smodate, improvvisate, manipolate e spesso calunniose, siete chiamati ad esercitare l’etica della comunicazione, cioè la parola documentata, meditata e profonda, la parola non asservita ad alcun potere e dunque libera di servire solo la verità, stella polare del vostro insostituibile ruolo di artefici e difensori del bene comune.
La vostra missione non può non fondarsi ed essere animata anche da una grande passione civile, dal dovere di studiare, documentarsi, aggiornarsi, di non dare mai nulla per scontato, verificare la correttezza dei dati e l’attendibilità delle fonti. Sono solo le doverose premesse per costruire un’informazione di qualità, capace di allargare gli orizzonti senza gettare veli sulla realtà, e di svincolarla dalle gabbie dell’indice di gradimento e dell’offerta di largo consumo.
Come sapete, dopo quello del 2021, centrato sull’andare e vedere, nel suo nuovo Messaggio per la Giornata Mondiale delle Comunicazioni sociali per il 2022, Papa Francesco chiede al mondo della comunicazione di reimparare ad ascoltare. Ogni giorno ci muoviamo in una società che per sua stessa natura rende sempre più difficile la possibilità di ascoltare a causa di stress, aggressività, rumore e frenesia. Siamo tutti chiamati ad ascoltare e non solo a sentire. Sentire non è lo stesso che ascoltare, infatti l’ascolto attivo è caratterizzato da un atto volontario grazie al quale si decide di porgere e prestare l’attenzione della mente e del cuore, attraverso la sensibilità e l’intelligenza di cui siamo dotati.
Ascoltare attivamente consente di metterci nei panni dell’altro, di riconoscere e accettare il suo punto di vista, le sue emozioni e l’ascolto è, dunque, la prima attività comunicativa necessaria per ottenere la fiducia dei nostri interlocutori.
Ascoltare per un giornalista significa avere la pazienza di incontrare a tu per tu le persone da intervistare, i protagonisti delle storie che si raccontano, le fonti da cui ricevere notizie. Ascoltare è il compagno di viaggio del vedere, con l’esserci: certe sfumature, sensazioni, descrizioni a tutto tondo possono essere trasmesse ai lettori, ascoltatori e spettatori soltanto se il giornalista ha ascoltato e ha visto di persona.
Nel tempo in cui milioni di informazioni sono disponibili in rete e molte persone si informano e formano le loro opinioni sui social media, dove talvolta prevale purtroppo la logica della semplificazione e della contrapposizione, il contributo più importante che può e deve dare il buon giornalismo è quello dell’approfondimento.
Raccontare significa lasciarsi colpire e talvolta ferire dalle storie che incontriamo, per poterle narrare con umiltà ai nostri lettori. La realtà è un grande antidoto contro tante “malattie”. La realtà, ciò che accade, la vita e la testimonianza delle persone, sono ciò che merita di essere raccontato. Abbiamo tanto bisogno oggi di giornalisti e di comunicatori appassionati della realtà, capaci di trovare i tesori spesso nascosti nelle pieghe della nostra società e di raccontarli, permettendo a tutti noi di rimanere colpiti, di imparare, di allargare la nostra mente, di cogliere aspetti che prima non conoscevamo. Dovete raccontare le storie partendo dai dettagli, dai piccoli gesti, dalle parole che in apparenza dicono poco.
Non riusciamo più a capire il mondo che ci circonda, perché non sappiamo più ascoltare la sua voce, i sussurri, le frasi spezzate, le parole che ci arrivano, le grida di dolore soffocate. Voi dovete ascoltarlo quel brusio e dare riverbero alle flebili voci. Vi invito soprattutto ad ascoltare e ad amplificare il grido silenzioso dei tanti poveri, che deve trovare il popolo di Dio in prima linea, sempre e dovunque, per difenderli e solidarizzare con essi davanti a tanta ipocrisia e tante promesse disattese e per invitarli a partecipare alla vita della comunità.
Dovete accendere i riflettori su tutte quelle periferie in cui ogni giorno si calpesta l’umanità, dovete illuminare il dolore, l’emarginazione, il sopruso, la violenza, le torture, la prigionia, la guerra, la privazione della libertà e della dignità, l’ignoranza e l’analfabetismo, l’emergenza sanitaria, la mancanza di lavoro, la tratta e la schiavitù, l’esilio e la miseria.
Mentre emerge sempre più la ricchezza sfacciata che si accumula nelle mani di pochi privilegiati spesso con un alone di illegalità e di sfruttamento offensivo della dignità umana, fa scandalo l’estendersi della povertà a grandi settori della società in tutto il mondo. Dinanzi a questo scenario, non si può restare inerti e tanto meno assumere un atteggiamento di rassegnazione e voi giornalisti soprattutto non potete restare in silenzio, non potete girare la testa da un’altra parte. Bisogna denunciare la povertà che inibisce lo spirito di iniziativa di tanti giovani, impedendo loro di trovare un lavoro, la povertà che anestetizza il senso di responsabilità inducendo a preferire la delega e la ricerca di favoritismi, quella che avvelena i pozzi della partecipazione e restringe gli spazi della professionalità umiliando così il merito di chi lavora e produce.
Oggi il sistema mediatico è travolto dai ritmi della rete, ci sono programmi di intelligenza artificiale che sono in grado di trasformare un lancio di agenzia in un articolo o di aggregare più articoli e farne un altro: tra pochissimo saranno questi software a comporre le “ultim’ora” dei siti web. Per questo il giornalismo, il buon giornalismo deve produrre approfondimento, perché è chiamato a far capire ai suoi lettori quali siano le cause di un fatto, analizzare le sue conseguenze e spiegarne il contesto. Farlo con tante informazioni, con un inquadramento non solo statistico ma anche sociale e culturale.
Un altro rischio da cui dovete difendervi e dal quale dovete tenere riparata la vostra missione è la spettacolarizzazione della notizia.
Dovete spendervi nell’approfondimento della realtà attraverso il giornalismo di inchiesta. L’inchiesta è prendere un’informazione di interesse pubblico, approfondirla e svelarla. Il gossip invece è un’altra cosa, è prendere un dettaglio, isolarlo e usarlo come fonte di ricatto. L’inchiesta ha a che fare con l’interesse pubblico, il gossip ha a che fare con il privato. È quest’ultimo a essere remunerativo, ma è l’interesse pubblico quello per cui vale la pena diventare giornalisti.
Voglio cogliere questa occasione di incontro anche per ringraziarvi per tutto quello che avete fatto e continuerete a fare in questo tempo di isolamento per l’emergenza sanitaria causata dalla pandemia da coronavirus: avete offerto un importante servizio di informazione e di collegamento. Proprio questa esperienza ha reso ancor più evidente quanto la comunicazione sia un servizio, anche di carità, che permette alle persone di connettersi e rimanere unite, attraverso le notizie, che oltre a diffondere i dati del contagio, le paure e il dolore delle vittime e dei familiari, la necessità di limitazioni e prudenze, hanno fatto conoscere la grande attenzione messa in campo verso i sofferenti, i bisognosi, con storie e testimonianze di vita e di speranza.
Grazie a voi, che continuate a mettere a disposizione tempo e professionalità, anche rischiando in un contesto difficile, continuano ad essere custodite e ampliate le relazioni sociali, consentendo alle persone, alle famiglie, agli anziani, agli ammalati di restare vicini, sia pure distanti, attraverso la rete dei mezzi di comunicazione, grazie ad un grande sforzo per cui avete dato prova di generosa responsabilità e prossimità.
Siate custodi della fragilità e della potenza delle parole. Non tutte le parole sono uguali, alcune distruggono altre costruiscono, alcune sono condizioni per amare altre per odiare. La parola è un ponte, noi entriamo nell’altro attraverso di essa. Quando le nostre parole sono prive di anima e di vita, possono essere false o vuote, inutili oppure offensive. Quando conservano la loro anima donano energia e luce al volto di chi le ascolta.
La rete ha reso tutto contemporaneo e tutte le informazioni rischiano di viaggiare in un flusso senza gerarchie, senza un segno distintivo. I giornali e i giornalisti non devono fare parte del flusso, devono tenere un piede dentro ed uno fuori, trattenendo solo i pezzi di notizia portatori di senso e che ritengono necessari per ricostruire la realtà. Il ruolo della stampa è selezionare e gerarchizzare le notizie, dare loro un senso, svolgere quindi la funzione propria del giornalismo, che è quella di dare risposte a tre fondamentali domande: quel che bisogna sapere, quel che merita ricordare, quel che resta da capire.
Voi avete tra le mani gli strumenti per riconnettere le persone non attraverso l’istantanea e superficiale pubblicazione o condivisione di un “mi piace” ma attraverso la verità dei fatti che è soprattutto una questione di sguardi e di linguaggio. È saper vedere ciò che altri non vedono, mettere in rete ciò che altri scartano, essere sale e lievito che non addormenta, ma aiuta conoscenza e trasformazione a raccontare la realtà e parlare chiaro come dovere etico, chiamati spesso a capovolgere il punto di vista, recuperando il linguaggio della autenticità.
Ho fatto riferimento al sale che nella Bibbia ha un grande valore simbolico: fa pensare alla “comunione tra alleati”. L’alleanza è forte e vera quando il sale non è scipito. I discepoli devono conservare in sé il sapore di Cristo, altrimenti non valgono nulla, non servono a nessuno. Non danno al mondo ciò di cui l’umanità ha bisogno: l’antidoto alla sua tendenza alla corruzione. Il sale, infatti, non serve solo a dare sapore, ma anche a preservare dalla corruzione. Mettere sotto sale i cibi significa proteggerli dalla corruzione causata dal calore e dal tempo. L’umano tende a corrompersi: quanti esempi negativi di corruzione nella pubblica amministrazione e nella vita privata, nella gestione del territorio e del bene comune in generale. Simbolicamente la grandezza del sale sta nel fatto che si scioglie nella realtà a cui dà sapore e fecondità: non la usa, non la manipola e non la altera.
Vi auguro quindi di possedere “il sapere e il sapore” (nella lingua latina sàpere significa avere il sapore) del sale, per riconoscere il bene comune e per costruirlo facendovi lievito e compagni di viaggio nel cammino di crescita della nostra gente e del nostro territorio.
Cassano all’Jonio, 24 Gennaio 2022
memoria di San Francesco di Sales
Vostro
✠ don Francesco, Vescovo
a cura di Vincenzo Fiore
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