L’arresto di Matteo Messina Denaro: un mafioso postmoderno

220628

Matteo Messina Denaro, ritenuto responsabile di innumerevoli esecuzioni e tra gli organizzatori del sequestro del piccolo Giuseppe Di Matteo, rapito e poi strangolato e sciolto nell’acido dopo 779 giorni di prigionia, è stato arrestato a Palermo il 16 gennaio scorso sotto una pioggia scrosciante…

Quella del 16 gennaio per Nino Di Matteo, p.m. della trattativa Stato-mafia, che secondo il pentito Vito Galatolo nel 2013 sarebbe stato il bersaglio di un progetto di attentato ordinato dallo stesso Matteo Messina Denaro, è stata «una bella giornata per il Paese, per la giustizia, per Palermo e per la Sicilia, anche se guai a ritenere chiuso il cerchio», perché non si può «dimenticare, come riportano sentenze definitive, che Matteo Messina Denaro è quello che, insieme a Giuseppe Graviano, ha organizzato la campagna stragista nel 1993 a Roma, Firenze e Milano. È quello che ha indicato agli altri esecutori materiali gli obiettivi da colpire. È quello che probabilmente, in questo contesto, ha avuto contatti con uomini e ambienti esterni a Cosa Nostra».

ScrepMagazine, mio tramite, ha voluto chiedere allo storico prof. Giuseppe Carlo Marino una riflessione al riguardo dello storico arresto.

Giuseppe Carlo Marino nasce a Palermo, dove attualmente vive,  il 22 ottobre 1939.

La sua formazione si svolge a Firenze, dove nel 1962 consegue la laurea in Scienze politiche discutendo la tesi Sinistra siciliana dopo il Risorgimento, che gli frutta una menzione dell’Istituto Cesare Alfieri.

Ben integrato nell’ambiente sia culturale che politico fiorentino, stringe amicizia con personalità quali Giorgio La Pira, Mario Luzi e Nicola Pistelli.

Dopo aver insegnato storia e filosofia al liceo di Partinico, nel 1970 diventa assistente di Storia del Risorgimento all’Università di Palermo e pochi anni dopo professore incaricato di Storia moderna, che insegnerà per lunghi anni.

Marino, divenuto nel 2001 ordinario di Storia contemporanea presso l’Università di Palermo, è autore di numerosi libri ed ha collaborato con la RAI per alcuni programmi di storia.

Di scuola marxista, tra le sue pubblicazioni più note, spicca la Storia della Mafia, che si sviluppa dal primo omicidio di mafia, o che, almeno, tale era considerato, cioè il misterioso assassinio del generale garibaldino Giovanni Corrao, fino ad arrivare alle vicende del processo a Giulio Andreotti.

 Il professor Marino mi scrive:

Gentile amico,

il Suo gradito invito ha funzionato da spinta vigorosa a scrivere l’articolo allegato per il blog ScrepMagazine con cui collabora.

Come vedrà, è un piccolo, vero e proprio saggio, nel quale, approfittando dell’occasione offertami, ho ritenuto necessario fare emergere le peculiarità (ed anche, seppure per accenni, le “primazie” che ho osato segnalare con un certo vanto) della mia linea interpretativa del fenomeno mafioso, ormai largamente dominante soprattutto tra i magistrati, ma spesso contrastata persino da alcuni miei autorevoli emuli e colleghi.

Ogni tanto, credo, occorre – seppure con la necessaria sobrietà dei toni usati – alzare il tiro dell'”autodifesa” da invidie e sottovalutazioni.

Nel caso specifico ritenevo la cosa necessaria per la stessa spiegazione corretta della suddetta “linea interpretativa”, attenta, come scrivo, non tanto ai dettagli della “storia criminale”, ma al carattere e alle vicende della mafia come parte importante della storia del potere in Italia.

 In ogni caso, ritengo che questo che le invio sia uno dei miei migliori articoli, tra i molti che ho scritto negli anni, sul fenomeno mafioso e assume quasi, per un vecchio come me, un certo, consapevole “valore testamentario” (se le riesce, potrà anche segnalare, in un suo eventuale commento all’articolo, questa mia intenzione).

Spero che le piaccia e che voglia onorarlo con il massimo della diffusione consentita dal suo blog.

Voglia gradire i miei più cordiali saluti,

Giuseppe Carlo Marino

 L’improprio “arresto” di un mafioso postmoderno,

gli errori interpretativi  della mafia e l’ipocrisia di Stato.

di Giuseppe Carlo Marino

Il   recente plateale   arresto   del   boss   Matteo   Messina   Denaro  ci confeziona e ci consegna il ritratto di un personaggio singolare  che definirei   un  “mafioso  postmoderno”, una  definizione,  questa,  che tenterò  di spiegare tra poco.  

Intanto, per avviare l’analisi con un’osservazione generale del caso, direi che la sua vicenda criminale è descrivibile come il paradossale privilegio di una “scelta di vita” contrassegnata da una coerente e sistematica fuga da quel “vivere legalmente” che assilla di solito i normali cittadini, con scarse e spesso insoddisfacenti gratificazioni: uno “stile di vita” edonistico e sommamente conforme al costume consumistico e parassitario del nostro tempo che potrebbe persino dirsi, quali  che ne siano state le fatiche,  quasi  un  paradossale  privilegio assicurato   dall’astuzia   del  crimine   quando   riesce   a   conquistarsi     le   opportune alleanze e complicità   (l’impropria  “latitanza” tollerata e protetta,  nonché fruttuosa nell’ombra   di   successi “imprenditoriali” e di personali, ineffabili godimenti).

Almeno, mi sembra che proprio nei termini suddetti stampa e televisioni si siano largamente prodigate nel far di quell’arresto,  di   cui  Stato   e   forze   dell’ordine   possono   vantare un’appena   stanca   e   dubbiosa fierezza dopo un trentennio   di insuccessi (per quanto riferibili a misteriosi divieti e impedimenti), un “caso mediatico” nel quale un efferato criminale consegue una sorta di carisma da tragico “attore” che potrebbe persino indurre a considerare  l’efferatezza dei crimini da lui  commessi come  un “normale” e inevitabile prezzo pagato per conquistare il potere e il conseguente  prestigio dell’impunità.

Insomma, un Matteo Messina Denaro, “criminale-pop”, meglio definibile “mafioso postmoderno” (perché rappresentativo del peggio della malvagità che può sortire dai costumi indotti dal capitalismo globalizzato).

Se, per stile di vita tale losco soggetto può vagamente ricordare Stefano Bontate (detto il “principe di Villagrazia”), è però nettamente agli antipodi di un padrino “campagnolo” del livello di don Calò Vizzini (l’antico “re sole dell’”onorata società”) e degli stessi suoi immediati   predecessori corleonesi, Riina e Provenzano. 

Egli ha acquisito nettamente nel tempo  le stigmate del “mafioso di città” (intensamente   “urbanizzato”,   fino   alle   più   avanzate   pratiche conformi   alle   suggestioni   indotte   dal   capitalismo   dell’odierna rivoluzione tecnologico-digitale, la “rivoluzione postmoderna” di cui mi sono largamente occupato nel saggio “Contro l’inverno della memoria   e   della   storia”   edito   da   Castelvecchi),   sulla   base   di un’esperienza criminale intrecciata, come ho accennato sopra, con gli interessi   del   malaffare   borghese,   quelli   dei   cosiddetti   “colletti bianchi”.

Il principale tratto distintivo della sua attività è stato, infatti, quello dell’uso mafioso della corruzione: un terreno nel quale mafiosità e corruzione (sia nel privato che nel pubblico)  sono così intrecciate da rendere   assai   difficile   distinguerle   separando   nettamente   l’una dall’altra.

In   definitiva,     mi   sembra   che   sia   da   riconoscere   nella   stessa semi ridicola insistenza dei media sui dettagli più scontati e banali della   vita   di   un   siffatto   “latitante   di   Stato”   almeno   l’elementare scoperta, da parte dei media appunto, di avere a che fare con un mafioso che ha poco da condividere con  quelli tradizionali di cui è ufficialmente   l’erede   e   dai   quali   avrebbe   ricevuto   l’investitura   di supremo capo di Cosa nostra, dopo l’uscita di scena dei Riina e di Provenzano,   mafiosi   di   tutt’altra   pasta   di   un’ormai  travolta generazione, travolta come tutto quel che appartiene alla storia che ha preceduto  la “rivoluzione tecnologico-digitale” che stiamo vivendo.

Certo, in una siffatta spettacolarizzazione  di un inedito  modello di “vita   da   mafioso”,  come   si   già   detto   intensamente   urbanizzato, ultra capitalistico, pienamente e integrato con la “società dei consumi,” e del welfare, agli antipodi di quello rozzo e contadinesco degli antichi “padrini”,   c’è   il   rischio   –   soprattutto   per   l’educazione   civile   dei giovani – di un ribaltamento del negativo in un demoniaco positivo, almeno nei termini di una rappresentazione un po’ faustiana   del crimine come scelta avventurosa   che, per quanto destinata a finir male, può a lungo assicurare il confort del potere e dei consequenziali privilegi,  persino con  quella  sensazione di “eroicità” che può dare il “vivere pericolosamente” a sfida della mediocre “normalità” di cui in genere ci si accontenta.

Una sorta di “estetica del crimine”, conforme alla mentalità diffusa e alle mode del nostro tempo, direi.

Che giornalisti e superficiali commentatori della cronaca abbiano insistito, fino agli eccessi,  su questa pericolosa “estetica” non può sorprendere più di tanto, ed è ben comprensibile, dato che anch’essi – a parte le esigenze specifiche del loro mestiere attento ai dettagli di costume e di folklore – normalmente ne condividono la mentalità “postmoderna” e le suggestioni.

Ma per il  giudizio di chiunque aspiri come il sottoscritto ad un giudizio approfondito da storico, ovvero, da studioso della fenomenologia mafiosa come parte importante della storia del potere in Italia, si tratta di un’occasione utile (un’ulteriore e ahimè alquanto disperante occasione!) per tornare a denunziare quanto ancora,  pur essendoci ormai  una letteratura  immensa sul fenomeno,   le conoscenze in tema di mafia siano approssimative, spesso sbagliate o distorcenti   e comunque  deficitarie,  non solo nella comune opinione della gente semplice, ma anche in quelle degli “intellettuali” e persino tra gli “addetti” al civile lavoro di contrastare e reprimere il fenomeno che da tempo appare come una specie di fenice sempre capace, riproducendosi e innovandosi, di risorgere in forme nuove dalle sue ceneri.

Un’occasione da non perdere per un’analisi critica, cioè scientifica, di cui ci sarebbe  ancora più urgente bisogno oggi dinanzi alle evidenze della nuova “fenice” che il caso di Matteo Messina Denaro mette in luce:  è nata e si è consolidata intorno al boss di Castelvetrano  una tipologia mafiosa “innovativa” rispetto alla precedente perché è così legata ad un certo tipo di “imprenditoria” di  evidente natura capitalistica (compreso il capitalismo finanziario)  da rendere persino difficile continuare  a chiamarla  “mafia”;  in   definitiva  si  potrebbe  avere l’impressione, usando la parola “mafia”, di continuare ad usare una vecchia parola per definire un fenomeno nuovo ancora in formazione.

Del resto accade la stessa cosa usando la parola “fascismo” per designare gli attuali processi, e le dinamiche, delle Destre oggi al potere in vari Stati.

Ma, se è nuovo il fenomeno in formazione (tanto nuovo da avere incautamente indotto taluni miei illustri e colti colleghi storici come Salvatore  Lupo a  ritenere  ormai  definitivamente   sconfitta   ed eliminata la mafia!), è quasi inalterato un antico rapporto tra la mafia come   sistema   di   potere   (almeno   valutandone   le   intenzioni strategiche) e lo Stato.

In proposito – pur avvertendo tutto il disagio del proporre qui una riflessione piuttosto difficile e sofisticata non proprio alla portata della comprensione di tutti – è da porre e da considerare nella sua ambiguità ed erroneità la questione  della corrente  interpretazione   della  mafia  come  “anti-Stato”; un’interpretazione assai diffusa, spesso rilanciata, anche nelle scuole, nel corso delle campagne per l’educazione antimafia.

La recente scoperta di una specie di Statuto, una sorta di elementare Costituzione scritta della mafia, dà  pienamente   ragione al   grande giurista siciliano  Santi Romano (fondatore e maestro della Scuola del “diritto pubblico” in Italia) quando nel suo saggio “L’ordinamento giuridico” (1905), formulando la sua teoria del “diritto-istituzione”, certamente aveva presente anche la mafia come “istituzione” ovvero come contesto sociale organizzato capace, “legittimamente” dal suo punto di vista, di emanare delle norme “giuridiche” e di applicarle e farle osservare ricorrendo ai suoi propri strumenti di controllo politico e  giudiziario e, se ritenuto necessario, di punizione.

La questione  così posta – a pensarci bene – evidenzia quanto sia poco appropriato e fuorviante ritenere che la lotta alla mafia sia, di per sé, come   si   suole   dire   e   ripetere,   una   lotta   per   la   “legalità”   contro l”illegalità”.  

Invero,   si   è   sempre   trattato   di   un   conflitto   tra   due “ordinamenti giuridici” (lo Stato e la mafia), ciascuno dei quali si ritiene “sovrano”, e pertanto di per sé  indipendente, rispetto all’altro.

La complessità del fenomeno mafioso (con la quale mi sono misurato nella mia   fortunata  STORIA  DELLA MAFIA, edita   da   Newton Compton) consiste tutta in questa pretesa della mafia (“Cosa Nostra”) di ritenersi legittimamente estranea allo Stato e legittimata a prescinderne, contrapponendo ad esso il suo proprio, “sovrano ordinamento”.  

Quelli che per lo Stato sono delitti (in specie gli assassinii), per la mafia sono   “esecuzioni” di sentenze.

L’argomentazione appena svolta, lo so bene, è un po’ sofisticata e difficile da accettare, ma è sofisticata, e difficile da capire, anche la mafia.

Essa, essendo un’argomentazione fondamentale per una corretta analisi storico-critica (ovvero scientifica) del   fenomeno, induce a riflettere anche su caratteri, limiti e  confini della cosiddetta legalità: ci sono legalità e legalismi di varia natura corrispondenti a valori   ed   etiche   assai   differenziate, “legalità giuste”  e  “legalità ingiuste” (e talvolta assai disumane e  pericolose)!!!

Non è forse vero che in uno Stato nazista, nel suo “ordinamento” totalitario e razzista, la “legalità” coinciderebbe con la legislazione prodotta e imposta dal nazismo?

Allora, in uno Stato del genere, uno Stato nazista, stare dalla parte della “legalità” equivarrebbe a stare dalla parte del nazismo.

Alla luce di siffatte considerazioni, Matteo Messina Denaro è il boss che ha spinto al massimo grado la pretesa della mafia non solo di rivendicare la sovranità di una sua propria “legalità” (per quanto ovviamente iscrivibile tra quelle che, come il   nazismo,   sono da considerare come  sommamente turpi oltre che “ingiuste”), ma di espandersi il più possibile al di là dell’ orizzonte dell’”ordinamento mafioso”   tentando  addirittura   di   appropriarsi, nei termini  di  uno spregiudicato attivismo affaristico, di quanta parte   di  formale “legalismo” poteva trarre dallo Stato avverso e concorrente sfruttando l’assai esteso malaffare delle sue componenti di “illegalismo” occulto o tollerato (specie tramite la massoneria) e delle sue forze “infedeli” già corrotte o abilmente corrompibili.

Oltre tutto, Matteo Messina Denaro rappresenta il punto di arrivo, e il superamento verso una fase nuova di cui sono imprevedibili gli sviluppi, di una lunga storia della “concorrenza” tra i due “ordinamenti” (la mafia e lo Stato, ho detto) che   ha dato   luogo sia a scontri drammatici, sia a complicità corrispondenti, nel tempo, ai variabili interessi di potere delle due parti:  in questa lunga vicenda la mafia è stata una forza anti-Stato solo e soltanto nella misura in cui  si   è   resa   sistematicamente complice, contro lo Stato la cui legittimità è fondata su un’etica civile (in specie della democrazia),   di quelle forze antipopolari che, nel medesimo Stato, hanno ritenuto utile o addirittura necessario utilizzare la criminalità per il perseguimento e l’autotutela dei loro interessi di ceti privilegiati; in origine, si trattava degli interessi e dei privilegi dei baroni e dei latifondisti e successivamente, con i cambiamenti sociali e politici, degli interessi e dei privilegi della borghesia agraria parassitaria costituita dai cosiddetti gabelloti (gli affittuari dei latifondi); per poi approdare nel nostro tempo – come si è già rilevato – alla borghesia corrotta dell’amministrazione pubblica e delle professioni, fino ai recentissimi “colletti bianchi” sempre più protagonisti dei recenti processi di mafia nei tribunali”.

Acquisiti, spero definitivamente, nel corso dell’analisi qui svolta, i motivi per i quali mi sembra che sia da ritenersi, se non gravemente errato, almeno semplicistico concepire, intendere e definire la mafia come   mera “criminalità organizzata” e non   come un perverso ”ordinamento” ovvero come un autoreferenziale sistema di potere ed altrettanto errato o almeno semplicistico ritenere che la lotta alla mafia sia tout court una lotta per la “legalità” contro “l’illegalità”,  siamo  sulla  strada   giusta,   mi   sembra, per valutare correttamente in sede storica l’evento  dell’arresto (ma,   forse, un’abdicazione del personaggio ai privilegi della “latitanza protetta”) del boss di Castelvetrano e per avanzare un sensato giudizio politico sull’accaduto.

In proposito, non avrei altro di meglio da proporre che quanto ho già scritto rispondendo ad una domanda rivoltami da Pietro Scaglione jr. in un’intervista per “Famiglia Cristiana”.

Quale che sia il comprensibile uso propagandistico che si tende a farne da parte delle forze politiche governative, per quell’evento i toni trionfalistici sono del tutto ingiustificabili.    

E’ sensato valutare come un successo dello Stato il fatto stesso che quel pericoloso ed efferato mafioso sia stato finalmente arrestato; se ne dia il giusto merito   alla   magistratura  e ai carabinieri; ma si  tratta anche, a pensarci bene, di una sconfitta del medesimo Stato che per arrestarlo (e, si badi, non in un qualche introvabile rifugio, ma addirittura  a casa sua!) per assicurarlo alla giustizia ci ha messo ben trent’anni. Un fatto che è poco limitarsi a definirlo inquietante. Un fatto, destinato ad ipotesi di ogni tipo e non a risposte certificanti, che non potrebbe non indignare chiunque sia dotato di un minimo di sana sensibilità civile. Del resto, anche un fatto che riproduce  nella recente storia italiana  casi analoghi  come quelli di  Riina e di Provenzano.

Nessuna  retorica in  proposito è  consentita;  lo sappia la  signora Meloni  che tripudia rivendicando come un successo del suo governicchio fascistoide un fatto per il quale noi tutti, in Italia dovremmo   provare indignazione. Ed è un fatto che, come preciseremo meglio fra poco, contiene non poco di “ipocrisia di Stato”.

Infatti, c’è da supporre sensatamente, pur mancandone le prove, che sia nel caso di Matteo Messina Denaro che in quelli precedenti di Riina e di Provenzano, ci si trovi a costatare delle lunghe latitanze accettate e “consentite” molto in alto da “poteri forti” interessati a difendere certi equilibri di affarismo-corruzione-mafia incisivi  sulla strategia  perseguita da talune  forze infedeli o “deviate” dello Stato, capaci di paralizzare quelle sane e impegnate diligentemente nel servizio alla legalità e all’ordine pubblico.

In altri termini, le cosiddette “primule rosse” devono il loro successo molto più a certe interessate e potenti “protezioni” che alle loro personali capacità di  eludere la   legge  e  di   sottrarsi   all’azione repressiva dello Stato.

E’ questa una storia molto vecchia in Italia, nel rapporto tra criminalità organizzata e poteri politici; se ne avvidero tra i primi, precocemente, come documento in un mio libro, i cattolici militanti dell’immediato post Risorgimento, quando erano in rotta con il cosiddetto Stato liberale.

Se uno come Matteo Messina Denaro, pur affannosamente ricercato, riesce   a non farsi arrestare addirittura per trent’anni, e poi viene finalmente arrestato (ma addirittura, ripeto e sottolineo, a casa sua!), questo   –   in   uno   Stato   dotato   di   una polizia appena capace di esercitare il suo mestiere – non può che lasciare supporre una qualche intenzionale e “programmata” volontà di non arrestarlo.

Persino una specie di “ipocrisia di Stato” nel proclamare  dei severi intenti   antimafia   sistematicamente   elusi   nella   realtà.  

Sì,  è   vero, questa   storia   di   un’”ipocrisia   di   Stato”   che   sistematicamente   si alimenta di illegalismo mascherato da rigore legalitario e poi osa tripudiare   per   le   prove della sua complicità con   il  malaffare (esercitata   in   ricorrenti   “trattative”)   è   una  storia vecchia, vecchissima!  

Oso, in conclusione, vantare la fierezza di averla compresa e ricostruita precocemente, fin dal lontano 1964, con il mio saggio su “L’opposizione mafiosa” (Flaccovio) che inaugurò in Italia gli studi storici del secondo dopoguerra sul fenomeno mafioso, attrasse subito l’attenzione di uno dei più colti politici della storia italiana (Palmiro Togliatti) e che – tramite gli sviluppi negli anni di una piuttosto   imponente produzione storico-mafiologica, attenta non tanto ai dettagli della “storia del crimine” ma alla storia del potere – avrebbe avuto la fortuna di incontrare molti lettori e soprattutto di diventare prevalente nel giudizio delle componenti più sensibili ed illuminate della Magistratura.

Un  vanto, questo (me lo si voglia perdonare!), al quale il   “caso Matteo Messina   Denaro” assicura un’ulteriore verifica fattuale e che è stigmatizzabile, se si vuole, come è giusto che sia per ogni vanità, ma che forse può valere, ben al di là dell’autore, come una testimonianza dell’efficacia civile del lavoro storiografico. 

Vanto perdonato, caro professore, e grazie per aver accettato l’invito di ScrepMagazine e averci consegnato un saggio destinato ad entrare nella storia del dibattito sulla mafia!     

Vincenzo Fiore

Clicca il link qui sotto per leggere il mio articolo precedente oppure sul mio nome per visitare la mia pagina autore con tutti i miei articoli…

Previous articleLa Candelora
Next articleAntonio Affidato, orafo e scultore, nel Catalogo d’Arte e Poesia Contemporanea di Sonia De Murtas
Vincenzo Fiore
Sono Vincenzo Fiore, nato a Mariotto, borgo in provincia di Bari, il 10 dicembre 1948. Vivo tra Roma, dove risiedo, e Mariotto. Sposato con un figlio. Ho conseguito la maturità classica presso il liceo classico di Molfetta, mi sono laureato in Lettere Moderne presso l’Università di Bari con una tesi sullo scrittore peruviano, Carlos Castaneda. Dal 1982 sono iscritto all’Ordine dei Giornalisti, elenco Pubblicisti. Amo la Politica che mi ha visto fortemente e attivamente impegnato anche con incarichi nazionali, amo organizzare eventi, presentazioni di libri, estemporanee di pittura. Mi appassiona l’agricoltura e il mondo contadino. Amo stare tra la gente e con la gente, mi piace interpretare la realtà nelle sue profondità più nascoste. Amo definirmi uno degli ultimi romantici, che guarda “oltre” per cercare l’infinito e ricamare la speranza sulla tela del vivere, in quell’intreccio di passioni, profumi, gioie, dolori e ricordi che formano il tempo della vita. Nel novembre 2017 ho dato alle stampe la mia prima raccolta di pensieri, “inchiostro d’anima”; ho scritto alcune prefazioni e note critiche per libri di poesie. Sono socio di Accademia e scrivo per SCREPMagazine.

1 COMMENT

LEAVE A REPLY

Please enter your comment!
Please enter your name here