«No, mio zio è stato portato al manicomio qualche anno fa», ammise tristemente il giovane che capii essere il nipote del mio amato.
Che cosa era un manicomio?
«Non è che potresti portarmici? Sono di passaggio in questa città e vado piuttosto di fretta. Vorrei salutarlo prima di andarmene.»
Gli spiegai diplomatica e gentile.
Inutile dire che usai un po’ del fascino delle sirene, non avevo tempo da perdere.
Prese una giacca, infilò svelto le scarpe e salì sul suo motorino vecchio, ma ben funzionante.
I vicoli della bella Vieste erano silenziosi ed illuminati dai primi raggi del sole.
Mi imposi di fotografare mentalmente quelle stradine poiché, da quel momento in poi, le avrei riviste soltanto nei miei ricordi.
Le scale bianche, gli stendini, gli archi, i pavimenti in pietra, i negozietti ed i ristoranti.
«Scusa ragazzo, mi potresti dire perché tuo zio si trova in un manicomio?», gli domandai dolcemente sperando che il raccontare non lo facesse stare troppo male.
«Quando aveva diciannove anni, stette via una intera notte e fece ritorno la mattina seguente dicendo che una ragazza l’aveva fatto diventare un sasso e che la sorella era in pericolo.
Andò correndo alla capitaneria di porto, allarmò tutti e li portò col proprio peschereccio lontanissimo dalla riva. Quando in Capitaneria si capì che non c’era nessuna ragazza in pericolo, dopo aver ascoltato la storia della sua trasformazione in sasso, furono avvisati i genitori che, a seguito di diverse sedute dalla psichiatra, si arresero all’evidenza e lo chiusero nel peschereccio sino a quando non lo misero in manicomio.
Zio Pizzomunno si recava ogni giorno al largo per pescare e cercare la ragazza di cui nessuno ne conosceva l’esistenza.
Purtroppo mio zio non si fece una famiglia, come avrebbe voluto, e continuava a dirci di guardare nel mare perché erano loro che la tenevano prigioniera. Non sappiamo ancora a cosa si riferisca questo “Loro”», mi raccontò il ragazzo, che in seguito continuò a cercarmi seppure fosse stato messo in guardia dalle mie sorelle.
Lui mi amava a tal punto da sfidarle e rischiare la propria vita.
Arrivammo poco fuori città in aperta campagna davanti ad un edificio in pietra bianca, recintato da un alto cancello bianco e verde.
Suonai all’unico campanello presente e dopo qualche secondo il cancello si aprì.
Ringraziai il sosia del mio Pit ed entrai nervosamente.
Una signora si presentò nel vialetto d’entrata come la direttrice del posto chiedendomi chi stessi cercando.
«Ah, il signore del mare! Ho capito cara, mi segua», disse facendomi strada in quel luogo dalle grandi vetrate in cui predominava il colore verde delle pareti e degli arredi.
Arrivammo davanti ad una stanza: la 23.
«Buona fortuna signorina», mi disse la direttrice per poi incamminarsi lungo il corridoio.
Entrai senza fare rumore, col cuore in gola, ma strepitante come non mai.
Finalmente dopo tanti anni avrei rivisto l’amore della mia vita.
Ma lui mi avrebbe riconosciuta?
Anche lui stava sognando da tempo questo momento?
Anche lui mi pensava?
Anche lui sperava di rivedermi?
Arianna Aicardi
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