L’acqua avvelenata, di Francesca Rita Bartoletta

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Storie e leggende di Calabria, seconda parte… 

La religione è l’oppio dei popoli, sosteneva Karl Marx, in quanto attraverso essa, più facilmente il popolo sopportava le ingiustizie e i soprusi, che le fragilità dei popoli era tenuta a subire, senza pensare di ricorrere magari ad atti di ribellione e sciogliere il giogo della tirannia.

La Calabria , terra di conquista da sempre, ha maturato nel corso della storia, un attaccamento particolare alla religione, considerata come elemento consolatore, porto sicuro dove rifugiarsi nelle afflizioni, risorsa imprescindibile, dove anche gli accadimenti naturali e spontanei venivano inglobati e confusi con miracoli o punizioni divine.

Fede e religione, venivano confuse, ed entrambe influivano sul pensiero e sul comportamento e stili di vita.

Ad esse venivano attribuite responsabilità propiziatorie dirette, per ottenere il favore delle divinità per la buona sorte, e per allontanare eventi nefasti.

L’acqua avvelenata.

Siamo nell’anno 1600, ai piedi di Monte S. Angelo, una piacevole valle, che rallegra la vista e dove scorre una fresca e leggera acqua. Questo almeno fino a quando si è pensato di annettere l’acqua sorgiva alla città.

Da quel momento peste e morte si diffuse nella città di Castrovillari, tanto da indurre a pensare di essere stati vittima di chissà quale oscuro sortilegio.

Argomentando l’accaduto i cittadini addivennero all’unanimità, che la causa di quella improvvisa e orribile pestilenza, fosse da attribuire al rimescolamento dell’acqua. Fu organizzato un pellegrinaggio di preghiera, presso una cappella nella valle del Coscile, ove erano custodite, statue prodigiose e considerando che, di seguito la pestilenza cessò di mietere morte, fu eretto un altare nella cappella, per devozione e a ricordo della pestilenza.

Fù così che sulla muraglia della fonte, come monito, venne impressa una targa con su scritto:

“Non la toccate più, che peggio facete”.

Bisogna attendere il 1800, quando i francesi, che all’epoca invasero i territori calabresi, dopo che esautorarono il regno dei Borbone, che la sorgente dell’acqua fu bonificata e annessa alle abitazioni, rendendo così, rigogliosi i terreni circostanti irrorati dell’acqua ritenuta superflua. L’erba spontanea cresceva florida e anche la menta ne ricavò beneficiò, il quale cresceva spontanea e profumata.

La scritta profetica, <non la toccate più, che peggio facete> ormai inutile per l’acqua, fu mantenuta, per monito alle donne, poiché si narra che, la menta raccolta per prolungare a lungo il suo fresco profumo si nutriva degli umori, i quali svaniti, erano causa dell’avvizzimento dei seni prima del tempo.

Il castello Aragonese di Castrovillari.

La torre infame.

C’era una volta un castello senza luci e senza fasti, nato solo per mettere in croce i poveri cristi. Rivoltosi li chiamavano, e poi briganti .

I primi si opposero agli Aragonesi, che poco tolleravano le rivolte, ed è per loro che si riedificò il castello, e nella lurida torre gettavano i loro corpi ancora vivi.

Poi arrivarono i francesi che sconfissero i Borbone: La torre si riempi di giorno e di notte di briganti intolleranti.

Fu il generale Mahès, uomo fedele di Murat, incaricato alla cattura.

Uomo di bell’aspetto ma atroce nei fatti, un servitore dello stato e un crudele invasore: “Il suo nome sarà e maledetto e benedetto per sempre“ dirà di lui Carlo Botta.

Di torri ve ne erano quattro che delimitavano il castello, ma solo una era temuta, perché chi vi entrava, mai più sarebbe uscito vivo.

La torre di Castrovillari angusta e malsana vide perire nell’insopportabile tanfo gran moltitudine. La repressione francese del brigantaggio fece della torre un “carnaio, donde ebbi e sazi ne uscivano i corvi” come si legge nel macabro racconto del Du Camp.

Il poeta Cesare Malpica, dopo averla definita cimitero di vivi così continua:”Di sotto al primo piano del torrione s’apriva un sotterraneo profondo, angusto, tenebroso, non mai visitato dalla luce, non abitabile neanche dalle belve. Laggiù si gettavano a centinaia i briganti; laggiù si abbandonavano all’ orrendo destino senz’aria, senza cibo, senza conforti, senza speranza. Gemeano! La fossa non aveva eco pei gemiti. Percotean la muraglia coi pugni chiusi, colla bocca spumante, cogli occhi torti per disperato dolore! La muraglia era qual di ferro fuso. Morivano! I vivi avevano un letto di cadaveri sotto i piedi. Si putrefacevano questi! Il lezzo insopportabile era morte ai superstiti. -Oh! Nello inferno di Dante non v’ha bolgia pari a questa creata dai pacificatori delle Calabrie. Laggiù la scena di Ugolino si ripetea cento volte al dì e nessuno gridava: deh se non piangi di che pianger suoli! Aver misericordia era delitto d’alto tradimento; esser spietato era fedeltà“.

La pestilenza si diffuse, l’orribile infezione impediva alle guardie di avvicinarsi. I sani si sbranavano l’un l’altro come cani, con le unghie e con i denti. La torre di Castrovillari divenne impura e simbolo di morte e corruzione e nelle notti ancora si odono urla e gemiti della disperazione.

Francesca Rita Bartoletta

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