La strina, di Francesca Rita Bartoletta

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Nel periodo che precede il Natale, diventiamo un po’ “architetti di emozioni”, in quei giorni, tendiamo a rivivere il calore del natale conosciuto nell’infanzia, un piacevole momento d’incontro con il passato, dove poter attingere l’entusiasmo che occorre, per predisporre l’animo al santo evento…

La naturale successione dello svolgimento, accade sempre alla stessa maniera, è ha inizio nel momento in cui, tiriamo fuori dalle scatole gli addobbi natalizi, per vestire a festa la nostra casa e creare liete atmosfere di accoglienza, per i nostri cari, invitati al banchetto dei ricordi.

Gran parte della nostra esistenza è dedicata a rispettare riti e tradizioni, diverse a secondo del luogo in cui viviamo, ma uguali negli intenti, di conservare e promuovere le storie, che ci sono state tramandate e per quanto è complicato rispettarle tutte, esse vengono raccontate come delle fiabe.

Tutto ha inizio la sera della vigilia dell’Immacolata Concezione, quando nelle case dei calabresi la padella allegra di olio che frigge e s’immergono i rinomati “cuddureddri”, ciambelline realizzate dal semplice impasto di farina, patate e lievito, ripieni di alici salate o semplicemente fritte e passate nel miele o nello zucchero, il quale a secondo del territorio, assumono denominazioni diverse, vecchiarelli, grispelle, etc. Intanto da lontano si ode il suono della zampogna, di cui le origini risalgono ancor prima dei greci, ancora prima del Natale.

Le figure dei musicanti altro non sono che pastori, che per devozione lasciano le loro case in prossimità delle feste e iniziano il viaggio per i paesi calabresi, che per la loro caratteristica strutturale e storica non sono dissimili dal presepe.

“U Zampugnaru,” così vengono chiamati gli agresti personaggi, che con la loro commovente musica, contribuiscono a dare solennità al Santo Natale.

Li caratterizza una visione romantica e suggestiva, per come si presentano nei loro abiti. Portano indosso: una camicia bianca, un pantalone lungo fino al polpaccio tenuti fermi da calzari in lana di pecora chiamati “Zarricchie”, un gilet anch’esso di lana di pecora, un cappello a forma di cono invellutato e nero di colore, un fazzoletto rosso al collo, e un grande mantello a ruota di panno pesante, che copre la figura.

L’abito talvolta veniva guarnito da nastrini colorati: le “ Zagarelle”…

I zampognari si muovo in coppia, a secondo di quanti strumenti vengono suonati.

Di solito il più anziano suona la zampogna e procede un passo avanti dal secondo, più giovane, che suona la ciaramella.

La zampogna è uno strumento a fiato pieno d’aria, alle quali estremità sono inserite delle canne di legno (Pive), che diede i natali alla cornamusa scozzese, mentre la ciaramella è uno strumento realizzato di canne che diede origine all’oboe.

Oltre a questi strumenti di base, a secondo della zona calabrese in cui ci troviamo, gli strumenti cambiano e altri ne vengono inseriti; ad esempio la fisarmonica o strumenti legati alla tradizione agropastorale creati di proposito, per citarne qualcuno: “U Murtali” o Ammacca sale, il mortaio, lo “ Zugghi” uno strumento a frizione utilizzato per dare il ritmo, realizzato con un barattolo di latta o di coccio, rivestito di pelle, dove nel centro veniva inserita una canna di bambù.

Tutto è pronto per dare inizio ad una delle più antiche tradizioni folkloristiche calabresi.

I zampognari lasciano i paesaggi montani per raggiungere i paesini a valle per suonare il natale e cantare la Strina.

Anticamente lo si faceva per bisogno, ora solo per mantenere la tradizione. Infatti nei tempi antichi, “la Strina” era canto augurale e di questua, difficile risalire alla sua provenienza; certo è che il termine “ Strenna”, indica buon augurio, doni, regali che gli antichi romani si scambiavano nelle calende di gennaio, all’inizio dell’anno, un modo per esorcizzare le disavventure dell’anno precedente e sperare nella prosperità futura.

Sonaturi e cantaturi (Suonatori e cantanti) iniziano il canto.

Le strofe della strina iniziano col salutare le mura di casa, sperando che questi aprono l’uscio.

Quando questo avviene i strinanti salutando i padroni di casa e tutti i componenti della famiglia.

Ognuno di essi vengono citati con una strofa che fa rima con un alimento e accompagnata con una benedizione, ad esempio:
< fammi la strina ( Che sta per dono), fammilla di ficu, mu ti sta bonu stu bellu maritu>; oppure, fammi la strina, fammilla di arangi, mu ti sta bona sta figlia ca ciangi>… “dammi in dono i fichi secchi, per amore di tuo marito e che Dio lo conservi in salute”… e così via…ma se i padroni di casa fanno orecchie da mercante e tengono chiusa la porta di casa, le benedizioni si tramutavano simpaticamente in profezie male auguranti. Ad esempio: … < Mienzu sta casa ci penne nu lazzu, quannu ti levi ti vù spezzà nu vrazzu >, “In mezzo alla casa pende una corda, quando ti alzi ti auguro di spezzarti un braccio>…chiaramente la traduzione non rende quanto il dialetto, la rima si perde, ma il senso è quello che avete letto e inteso.

La strina porta in se il senso profondo dell’accoglienza solidal e dell’ospitalità, tipica della gente di Calabria, quel sentimento di generosità e di altruismo che Giuseppe e Maria non hanno ricevuto quando Gesù si apprestava a nascere, e dovettero accontentarsi di una mangiatoia al freddo e al gelo.

Buon Natale a tutti voi e alle vostre famiglie.

Francesca Rita Bartoletta

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