Nel corso del tempo è stato formulato un indefinito numero di proposizioni filosofiche. Anche filosofi accomunati da un comune pensiero lo hanno, però, espresso in modi e con esiti diversi.
È questo, per esempio, il caso del dubbio socratico che nell’antichità portò Platone e Aristotele a formulare sistemi filosofici volti alla ricerca del vero, delle certezze fondamentali dell’esistere. Nello stesso periodo, però, troviamo il dubbio scettico che porta a conclusioni completamente diverse: non esiste nessuna verità e nessuna possibilità di conoscere la totalità.
Allo stesso modo, più tardi, nel Seicento, Cartesio dai dubbi conoscitivi ed esistenziali che lo attanagliavano arrivò a fondamentali certezze, tanto profonde da consentirgli di dimostrare razionalmente l’esistenza di Dio, anche in questo caso, dubbi sulla possibilità di conoscere l’essenza delle cose nascono nella filosofia inglese.
Fu soprattutto lo scetticismo estremo di D. Hume a negare ogni possibilità di fondare razionalmente alcuna verità. La riaffermazione dello scetticismo in età moderna e il probabilismo che lo accompagna, costituirono uno stimolante se pur inquietante riferimento per la filosofia kantiana fino all’epistemologia dei nostri giorni.
Fino all’Ottocento, forse per un’esigenza di ordine e regolarità, le filosofie sono state incasellate in grandi contenitori tematici organizzati cronologicamente: scolastica, umanesimo, razionalismo, empirismo e via dicendo…
Nel Novecento, non è più così, la filosofia va disperdendosi in una molteplicità di rivoli che nascono ed hanno esiti completamente diversi.
Seguendo, però, gli sviluppi del problema della conoscenza, nel Novecento troviamo alcuni pensatori che si rifanno a quella che oggi viene chiamata modernità (razionalismo illuministico), altri invece si rifanno all’antichità più lontana, quella del razionalismo puro di Parmenide che negò il valore di ogni esperienza.
Queste posizioni che hanno base razionale, cadono spesso in contraddizione e si impigliano nell’apriorismo che le caratterizza facendole apparire troppo antirealiste.
A questo tipo di filosofia si contrappone il cosiddetto “pensiero debole” che esprime l’impossibilità di avere fondamenti certi sia del sapere che dei valori. Riprendendo l’espressione “Dio è morto” vogliono indicare che è morto l’antico concetto di essenza, sostanza che dava forza e sostegno alla verità.
Per i sostenitori del pensiero debole, oggi, più che l’essenza conta l’esistenza che tramanda il linguaggio e le categorie culturali, ma non cerca di allargare le conoscenze e resta limitata nei confini angusti del proprio orizzonte storico – culturale.
Se nasce un dubbio e ci si pone la domanda <<che cosa è>>, <<che cosa debbo fare>>, sento che la risposta è dentro di me e lì devo andare a cercarla, in quella dimensione interiore che il pensiero debole nega.
E mi torna in mente G. Vico, filosofo vissuto tra Seicento e Settecento, che parlò di “senso comune”, <<nascosto nel fondo della mente umana>>, elemento che orienta le attività, i commerci, ma anche il linguaggio e la stessa mentalità e la rappresentazione della realtà naturale e sociale. In virtù del senso comune, le azioni compiute con fine individuale si traducono in una serie di attività e di idee socialmente condivise. È questa la società, sempre diversa e sempre, in fondo, con elementi uguali a sé stessa.
Il senso comune potrebbe diventare il punto di equilibrio tra la pretesa di ricondurre tutto ad una ricerca di leggi universali e necessarie e l’altra esigenza, quella di rinunciare alla ricerca di ogni fondamento di certezza e di verità.
Anche in questo caso potrebbero sorgere dubbi; e dubbi abbiamo in questi tempi liquidi in cui è difficile trovare qualche certezza che ci faccia intravedere la via da seguire, guidati da un comune sentire.
Se pure siamo bisognosi di certezze, quando si presenta il dubbio non dobbiamo allontanarlo dai nostri pensieri ma ascoltarlo e cercare di risolverlo; come hanno fatto prima di noi tanti pensatori, così noi possiamo vedere, cercando nella nostra interiorità le ragioni più vere delle nostre scelte e del futuro agire.
Oggi riaprono le scuole a macchia di leopardo, alcune sì, altre no. Devo dire che sono favorevole alla decisione di fare scuola in presenza, con le giuste precauzioni. Non ritengo, infatti, che siano le ore passate in classe a favorire la diffusione del virus.
Mi domando: perché i genitori hanno vaccinato i bimbi coraggiosi? Per poi tenerli a casa? Altra domanda: se non vanno a scuola di mattina, resteranno a casa anche di pomeriggio? E come si fa nelle zone non raggiunte dalla rete o nelle famiglie che non possiedono computer? E i genitori cosa devono fare, rinunciare al lavoro per rimanere in casa con i figli piccoli?
E poi, è così poco importante la scuola con la sua funzione educatrice e socializzante da poter essere tanto trascurata in termini di attenzione e di fiducia?
Dubbi, sempre dubbi, tanti dubbi. Un dubbio lo manifesta anche lui, tra i più grandi e da me tra i più amati, Agostino, il filosofo che dopo una vita dissennata e piena di errori diventò santo; egli si chiedeva, e così concludo:
<< Chi è quel padre così stolto che manda il figlio a scuola solo per imparare che cosa dice il maestro? >>
Intelligenti pauca.
Gabriella Colistra
Clicca sul link qui sotto per leggere il mio articolo precedente:
(…) ed il TRADUCIANESIMO di Aurelio Agostino – vescovo di Ippona – (proclamato, poi, dalla chiesa cattolica santo) prevedeva, forse, la trasmissione con l’anima anche della stoltezza?
Gentile Michele,
la stoltezza si sarà sviluppata in vita, non trasmessa con l’anima. Le occasioni per acquisirla sono tante.
Un saluto, Gabriella Colistra
La domanda, evidentemente, era retorica; Grazie per la Sua gentile risposta.
Interessantissimo, comunque, un dubbio (sia quello metodico/cartesiano, sia lo scettico/
Pirrone, Carneade, Sesto Empirico… e tutti coloro che sono approdati o approdano alla rinuncia (agnosticismo, criterio di verità, scetticismo).
Sapevo che lei aveva la risposta, ecco la mia brevità.
Grazie ancora! Gabriella Colistra