Dov’è il mio bambino?

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Ho perso il mio bambino!
Dov’è il mio bambino?

Sono trascorsi diversi giorni, ma l’urlo disperato della mamma africana che ha perso il suo bambino di 6 mesi nelle acque del Mar Mediterraneo, non riesco a dimenticarlo. Si dovrebbe rabbrividire al solo pensiero di una tale tragedia.

Era il giorno 11 del mese di Novembre quando l’associazione umanitaria Open Arms della omonima ONG catalana, l’unica imbarcazione no profit in attività sul Mediterraneo Centrale, ricevette la segnalazione di un gommone partito da Sabratha. Nonostante fosse stato lanciato l’allarme, a Sud di Lampedusa si consumava l’ennesima tragedia: il naufragio di un barcone con a bordo un centinaio di migranti.


Il piccolino si chiamava Joseph ed era originario della Guinea.

Le onde del mare hanno travolto il suo corpicino e, nonostante fosse stato soccorso, non ce l’ha fatta. Invece la mamma veniva portata in salvo dai soccorritori sul gommone, in preda ad una disperazione infinita, piangeva tutto il dolore che le stringeva il cuore.

La donna africana ha raccontato che, mentre cullava il suo piccolino, gli aveva promesso che non si sarebbe mai separato da lei.

Non era riuscita a mantenere la solenne promessa.

Non ci sono parole. “Dietro ogni corpo disperso nel cimitero del Mediterraneo, c’è la storia di un uomo uguale a noi, c’è il destino di una vita che è dono di Dio”.

Sono queste le parole di Don Corrado Lorefice, Arcivescovo di Palermo.

Francamente risulta inconcepibile che le autorità allertate per la presenza di una imbarcazione in difficoltà in acque internazionali non si decidano ad intervenire.

È davvero assurdo assistere al solito balletto delle responsabilità sulla opportunità di intervenire o meno nel salvataggio. Mancano regole condivise di politica europea che vadano nella direzione di tutelare gli aspetti formali in relazione al soccorso in mare.

Ma, probabilmente, esiste una penuria più grave, quella che colpisce la coscienza umana interessata alle logiche del potere, ai giochi politici, ai trasformismi e che non pone in primo piano il rispetto della vita umana e il diritto di tutti ad un’esistenza dignitosa.

Ma chi sono questi migranti?

Sono volti, sono storie, sono speranze, sono uomini, donne, bambini spesso in fuga da un destino avverso, da povertà, fame, guerre, soprusi.

Non sono figli di un Dio minore.

La cultura del benessere ci rende insensibili alle grida degli altri, ci fa vivere in una bolla di sapone… Stiamo lontani dalla globalizzazione dell’indifferenza!
L’indifferenza è il grande peccato!“.

(Papa Bergoglio).

Già, l’indifferenza!
È questo il male del nostro secolo.

Non è possibile ascoltare quell’urlo senza avvertire dentro l’eco disperata del dolore più antico al mondo, quello di una madre per il figlio morto.

Senza che ciascuno di noi sia colpito in prima persona, senza che ci si lasci attraversare da quella pietas, quel senso di umana compassione, senza che ci si senta nel proprio intimo tutti partecipi di un dramma che non è familiare, ma collettivo.

Senza che nessuno si fermi a pensare: ma cosa cercano questi migranti?
La risposta è semplice: sognano un futuro migliore, una vita felice, proprio come facciamo noi tutti.

E allora, solo quando quell’urlo lancinante, il dolore di quella giovane donna sarà anche nostro, diventerà universale, solo allora potremo iniziare a costruire le basi per un mondo migliore.

Piera Messinese

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