“Donna Pinù”

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Le case di quella città, nel lontano 1930, si presentavano come un agglomerato amorfo e caratterizzato da scarne vetrate d’accesso, nonché da persiane per metà arrugginite ed evidentemente fatiscenti, le quali conferivano al contesto, ad un primissimo approccio fugace, una parvenza che odorava di scarso ed insoddisfacente benessere economico.

Eppure, fortunatamente, a qualcuno non era negata un’occupazione che godesse di un minimo di stabilità rassicurante e ciascun abitante che fosse più fortunato rispetto agli altri, era nelle condizioni di recare, quasi sempre con sé, un tozzo di pane per il sostentamento delle rispettive famiglie.

Nella cerchia di coloro i quali non deteneva particolari problematiche nell’espletamento della propria attività, è di certo possibile annoverare un uomo con saldissimi principi morali, un signore d’altri tempi, (perbacco, sto narrando, come dicevamo, dei remoti anni 30), un padre di quattro figli che attendeva l’imminente e trepidante arrivo del quinto pargolo.

Era un impiegato dell’Enel e molti dei suoi concittadini avrebbero desiderato occupare quel posto di lavoro tanto anelato e ben retribuito, tant’è che era sempre stato molto invidiato da chicchessia e costantemente al centro degli sciocchi mormorii della gente.

Il 20 luglio del 1930, un vagito acutissimo e stracolmo di nuova vita invase la casa dell’impiegato.

La moglie aveva dato alla luce la loro quinta e sanissima creatura che stava mostrando, sin dagli albori del suo ingresso sull’ampia facciata del mondo, una verve intrisa di euforia e per nulla contenuta.

L’intero quartiere comprese immediatamente che il lieto evento fosse giunto a compimento e molte donne, un po’ per lecita curiosità ed un po’ per la gioia di condivisione, non esitarono a bussare alla porta della famiglia in questione.

“Oh, nà fimminedda nascìu! Quant’e sapurita sta picciridda, quant’è graziusa!”

Si trattava proprio di una bellissima femminuccia, paffuta e colorita, ma soprattutto detentrice di un timbro vocale talmente squillante da incutere la sensazione che si trattasse di un’infante che avesse avuto, addirittura, un anno e più di vita.

Ed invece lei era appena nata, avvinghiata sin da subito ai seni materni, un fagottino di quattro chilogrammi ed oltre che aveva fatto tanto patire la sua povera mamma.

“Comu ci mittìti a sta pupìdda? Quali n’nomi?”.

La stremata ma felicissima madre, con un fil di voce appena accennato, si limitò soltanto a proferire le seguenti parole:

“Ci mittèmu Maria Giuseppa, ma siccomu è la chiù n’nica di tutti poi la chiamamu Pinuzza.”

Pinuzza sarebbe stata davvero il prezioso gioiello di casa.

Era arrivata inaspettatamente, come un fulmine a ciel sereno, poiché nessuno avrebbe immaginato che dopo parecchio tempo la signora sarebbe stata, nuovamente ed in età avanzata, in dolce attesa.

Le sorelle di Pinuzza erano due giovani donnine di sedici e di quindici anni ed i fratelli ne avranno avuti, pressoché, quattordici e tredici.

La piccolina era l’autentica rappresentazione di un’adorata figlia per l’intero nucleo familiare, soprattutto per la maggiore dei fratelli, la quale le insegnò tutto quello che una brava “fimmina di casa” avrebbe dovuto apprendere: da un’ineccepibile quanto ferrea educazione alla maestria innanzi ai fornelli, da come avrebbe dovuto agire al cospetto di “picciutteddi” poco affidabili al modo di vestire con dignità e decoro.

Pinuzza divenne una donna bellissima, prorompente per fisicità e per carattere, di sicuro molto ribelle e colma di energia positiva, ma non le fu mai consentito di sfociare in malsane mancanze di rispetto nei confronti di nessuno.

Possedeva un innato potenziale che la rendeva differente dalle ragazze del suo tempo e la sua spiccata capacità di intercettare le sfumature più recondite dei molteplici accadimenti le consentiva, con una semplicità disarmante, di captare piacevolmente la reale essenza di tutti quanti i giorni vissuti.

Un sabato sera bussò alla porta di casa il fratello di sua madre.

Aveva una desueta luce dentro gli occhi, come se un’incontenibile felicità si fosse impossessata del suo essere trasognato.

Sedette su una poltrona che era stata foderata con della ciniglia marrone scuro da Don Calogero, il più esperto tappezziere residente in quella città e con le guance arrossate, a causa di tanto fervore, seguitó a spiegare la motivazione che lo aveva indotto a recarsi presso la sorella, giusto a quell’ora :

“Me figghia, chidda nica, se ne va in America. Un Americanu, originariu di la Sicilia, la voli pi mugghieri.”

Tutti gli intervenuti, all’interno di quella stanza, lasciarono che la notizia inaspettata, da lì a poco appresa, li investisse di sincera gioia.

“Ma non ho finito di parrari. Lu frati di questo americano ha veduto la faccia di Pinuzza e ci piacìu assai. Sì, perché io ho mandato in America una foto di me figghia amentri ca era abbrazzata cu Pinuzza, chidda davanti la porta. Insomma, stu bravu e sintimintùsu picciuteddu vulissi un fidanzamentu cù Pinuzza…”

Fu così che sfoderò dalla tasca una piccola foto in bianco e nero e, sebbene fosse un po’ sgualcita e accartocciata a causa del vano ristretto ove era stata posta, riportava fedelmente e con indiscutibile nitidezza l’immagine del giovanotto in questione.

“Pinuzza, ti piaci stu picciottu?”

Pinuzza diede un’occhiata fugace, poi si diresse sull’immagine con uno sguardo più arguto.

Pensò che quel picciotto non fosse affatto male e che se avesse accettato la proposta avanzata dallo zio avrebbe, addirittura, avuto la possibilità di recarsi in America.

“Pinuzza- disse il padre con tono severo -, non si discute. Chistu è veru un buon partitu. Tu sai scriviri. Domani ci manni una bella littra e ci dici che questo fidanzamento lo potete fare.”

Pinuzza ebbe un attimo di titubanza.

L’america, un paradiso colmo di fascino ed agognato dai più, così lontana, ma tanto ambita.

Ma sì, forse ne sarebbe valsa veramente la pena.

“Fazzu chiddu chi voli vossìa, papà.”

Dei fragorosi applausi rimbombarono per tutta la casa tant’è che il solito vicinato,che se ne stava costantemente in allerta, si apprestò ad origliare senza esitazione.

“Bedda matri, Pinuzza se ne va in America, evviva!”

I mesi trascorsero velocemente ma con scarno e flebile entusiasmo, tra scambi frequenti di epistole sgrammaticate e di fotografie leggermente ingiallite, accompagnate da dediche leziose e ben poco credibili.

Un afoso pomeriggio d’estate, Pinuzza ricevette un invito da una dirimpettaia.

Avrebbe dovuto partecipare ad una festa da ballo che aveva organizzato un picciutteddu di ventotto anni, molto benestante, di bell’aspetto e certamente compito. Insomma, si discorreva di lui come se fosse proprio un autentico galantuomo.

Pinuzza indossò il più bell’abito che avesse, un tailleur molto elegante che aveva realizzato appositamente per lei la sorella.

Il colore azzurro le donava moltissimo.

Pareva che stesse per essere ingoiata dal cielo terso di primavera.

Il suo audace e sicuro incedere sui tacchi a spillo, incitò molti giovani presenti alla festa ad apprezzare quell’amabile e suadente visione, per mezzo di sguardi deliziati e contemplativi.

“Signorina, voli abballàri?”

Era lui che la stava invitando , l’organizzatore di quella serata allestita alla buona, presso un pianterreno ubicato a pochi passi dal centro storico.

Egli era bruno, la sua carnagione tendeva a presentarsi leggermente olivastra, aveva degli occhioni scurissimi e penetranti ed un sorriso molto accattivante e persino sensuale.

Pinuzza avvertì un attimo eterno di smarrimento.

Esisterà mai l’amore a prima vista?

Talvolta accade.

Non ci si sofferma più di tanto a ragionare su enigmatiche motivazioni, quelle che sono le principali generatrici di rarissime alchimie.

Succede e basta.

Venticinque anni della vita di Pinuzza si ridussero in brevi istanti di scompenso emozionale.

All’interno di quella stanza ci saranno state una quarantina di persone, tutte in trepidante attesa che il grammofono cominciasse ad emettere le sue note graffianti.

“Sì, iu vulìssi abballari, vulìssi abballari cu vossìa.”

“Vossia? Signorina, io ventotto anni ho. E lei, comu si chiama?”

“Mi chiamu Maria Giuseppa, ma tutti mi dìcinu Pinuzza.”

“E iu mi chiamu Giuseppe.”

C’era un ragazzino di dodici anni che era stato appositamente ingaggiato per una gestione allietante del grammofono.

Giuseppe, di tanto in tanto, richiedeva qualche lento romantico e suadente, ma non invitò nessun’altra ragazza a ballare che non fosse solo ed esclusivamente Pinuzza.

Alla fine della serata, quando avvenne lo scambio involontario del profumo della pelle da entrambe le parti, Pinuzza giurò a se stessa e a quel giovane ammaliante che si sarebbero certamente rivisti.

Non una sola volta ma cento, mille, miliardi di altre volte.

I ragazzi cominciarono a frequentarsi di nascosto e dopo pochi mesi, Giuseppe si dichiarò apertamente:

“Pinuzza, vulìssi vèniri a la to casa e discutere con quel galantuomo di tuo padre. Ci vulìssi chiedere la tua mano.”

A Pinuzza sovvenne alla mente l’americano.

Era perfettamente cosciente del fatto che tutti sarebbero rimasti molto male in eguito ad un ipotetico diniego nei riguardi del matrimonio all’estero, ma era come se le sue carni tribolassero ferocemente, a causa di cotanta e fervida passione.

Giuseppe aveva monopolizzato ormai il suo cuore ed ella sapeva benissimo che, da quel ragazzo, non si sarebbe mai più distaccata.

Non sarebbe stata una scelta semplice da compiere:

“Giuseppe, sono fidanzata con un americano.”

Giuseppe accese un sigaro:

“Pinuzza, è megghiu l’America o è megghiu l’amuri? “

“È megghiu l’amuri! “

Il giorno seguente Pinuzza tirò fuori dal cassetto del mobile della cucina un foglio di carta ed un calamaio.

Scrisse una lettera molto breve, non si dilungò in vani particolari. Ciò che le importasse realmente riguardava il fatto che il messaggio trasmesso fosse molto chiaro e soprattutto inequivocabile:

“Un ti vogghiu chiù, mi sono innamorata di un altro picciotto.”

Così, Pinuzza si recò all’angolo della strada e spedì la lettera in America, senza titubanza di sorta.

Quando il padre ricevette la comunicazione della scelta, fu investito da una serie di lecite perplessità.

Aveva ben compreso chi fosse Giuseppe: un ricco proprietario terriero con molti dipendenti al suo servizio.

Il “partito” era ottimo, ma la famiglia di Giuseppe non avrebbe mai acconsentito ad un’unione sin troppo differente, a causa dell’allora oltremodo decantata differenza di classi sociali.

Ma se Pinuzza serbava in cuor suo, con infinito trasporto passionale, quel sentimento imponderabile e saldo, sarebbe stato del tutto inutile ostacolare ogni programma che fosse già prestabilito.

Non sarebbe andata in America neppure se l’autorità paterna avesse esercitato delle forti ed irremovibili coercizioni così, comprendendo in maniera serena ed intelligente, tutta la famiglia lasciò che gli accadimenti subissero la loro naturale successione, per volere del fato.

Giuseppe era rimasto orfano da ragazzino.

Le veci del capofamiglia, a partire dal tragico evento che previde la scomparsa dei genitori a distanza di poco tempo l’uno dall’altra, era stata affidata sin da subito al fratello maggiore, un uomo che ostacolò con qualsiasi mezzo l’unione tra Giuseppe e la sua tanto amata Pinuzza.

“Non è la picciotta per te, te la devi levare dalla testa!”

L’impavido Giuseppe, non riuscendo a tollerare ad oltranza le continue privazioni imposte dal fratello, decise che i comportamenti di quel “despota” andassero ridimensionati al più presto, all’interno di uno spazio che esulasse dal proprio.

Per tale ragione, in un tiepido giorno di metà settembre, dopo aver frequentato Pinuzza di nascosto per più di un anno, decise di convocarla repentinamente:

“Pinuzza mia, quello non si arrende. Stasira, si tu mi vuoi bene veramenti, ti porto nella mia casa in campagna e stamu insieme tutta la notti.”

Pinuzza non esitò nemmeno per un istante. Accettò immediatamente la proposta del fidanzato, poiché aveva ben recepito il fatto che null’altra alternativa sarebbe stata abbastanza valida e risolutiva, al punto tale da rendere ufficiale quell’unione tanto agognata.

Certo, fare la famosa “fuitina” non rappresentava l’emblema del classico idillio ma,tutto sommato, il giusto fine avrebbe giustificato qualunque mezzo immaginabile.

I due innamorati, in quella tiepida notte di lucciole e di luna piena, non fecero rientro nelle rispettive abitazioni.

La mattina seguente, Giuseppe accompagnò Pinuzza sull’uscio di casa.

Qualsiasi parola avrebbe detenuto una connotazione superflua.

Fu chiaro a chiunque che la potenza dei sentimenti fosse stata maggiormente pregnante di qualsivoglia ostacolo.

Il 10 novembre del 1955, Pinuzza e Giuseppe contrassero matrimonio all’interno della sagrestia della più bella chiesa della città.

Pinuzza non poté indossare l’abito nuziale, nessun velo bianco da sollevare con delicata dedizione da parte dello sposo, perché “lu parrinu” disse loro che avevano commesso un peccato mortale.

“Il despota” fu costretto alla resa definitiva e ad una passiva accettazione degli eventi verificatisi.

Accettò Pinuzza come cognata e la stessa gli concesse un perdono che deteneva l’amaro sapore della realizzazione di un sogno, che però si era concretizzato un po’ “alla buona.”

Ma andò bene così. Fondamentalmente il fattore rilevante prevedeva la consacrazione di un legame inscindibile.

Il 15 luglio del 1956, Pinuzza diede alla luce una bambina che crebbe felice ed amata allo stremo, attorniata dall’incommensurabile affetto di ogni singolo membro che faceva parte della parentela.

Non tutte le favole, purtroppo, presentano un lieto fine.

Questo fu uno dei casi emblematici in cui, la sorte beffarda e matrigna ingannò per diciannove anni una famiglia serena e benvoluta da chicchessia, infondendo la fuorviante idea, negli animi di due coniugi innamorati e sereni che tutto, a partire dalla remota fuitina, si fosse compiuto secondo i desideri.

Giuseppe venne improvvisamente e brutalmente aggredito da un male patrigno ed incurabile e si spense alla giovane età di 48 anni lasciando, nelle grinfie spietate della brutale disperazione, Pinuzza e la figlia diciottenne.

Pinuzza non tagliò più i capelli castani.

Lo fece 8 anni più tardi, in occasione del matrimonio della sua adorata “bambina”.

Quest’ultima sposò un giovane molto simpatico e profondamente rispettoso con il quale Pinuzza instaurò, sin da subito, un rapporto molto confidenziale e senz’altro positivo.

Un ulteriore stato di riacquisita serenità venne concesso a Pinuzza quando, un anno dopo le nozze, divenne nonna di una femminuccia.

La figlia dovette partire spesso, specie nei primissimi anni di vita della bimba, per pure esigenze di natura lavorativa.

Così, Pinuzza dedicò tutto il suo tempo alla vivace nipote e divenne per quest’ultima una vera e propria seconda madre.

In verità, dopo il matrimonio con Giuseppe, tutti cominciarono a chiamarla Pina.

La nipotina nutriva per lei un bene puro e sincero e quando il genero, a tarda sera, dopo una lunga giornata di lavoro, bussava alla porta della suocera per portare con sé a casa la figlioletta, con il solito modo goliardico che caratterizzava ogni sua espressione, andava dicendo per la scala:

“Donna Pinù, facìssi scìnniri a la picciridda!”

Era l’unico a chiamarla così, “Donna Pinù.”

Credo che nessuno seppe mai di questa sorta di definizione intrisa d’affetto, per mezzo della quale il genero la nominava sovente.

Solo all’interno della famiglia erano tutti a conoscenza di questo buffo soprannome.

La “picciridda”, però, non aveva nessuna voglia di scendere.

Si aggrappava imperterrita e risoluta alla gonna della nonna ed il suo papà, tutte le sere e per diversi anni, dovette ricorrere ad una grande pazienza per convincerla a desistere.

In verità, “la picciridda” non smise mai di frequentare quella casa, neppure quando divenne una donna.

Andava tutti i giorni a trovare la sua amata nonna, eccetto in sporadiche occasioni che la facevano sentire quasi in colpa.

Così, le volte in cui non si recava presso la nonna Pina desiderava, ad ogni modo, sentirla telefonicamente:

“Nonna, scusami, ho avuto un impegno.”

“Un ti preoccupari, figghia mia, quannu vo vèniri la porta è sempri aperta, tu lu sai!”

E fu davvero così.

Quella porta rimase letteralmente spalancata, pure per il figlioletto della nipote, che la ricopriva sempre di bacini affettuosi e di tenerissime carezze.

Sì, perché “Donna Pinù” ebbe il grande privilegio di provare la grande emozione di essere bisnonna.

Bisnonna… Per otto e meravigliose primavere.

Il 30 novembre del 2017, alla veneranda età di 88 anni, “Donna Pinù” andò via in punta di piedi, senza dire niente a nessuno, senza aver sofferto neppure il tempo di uno schioccar di dita.

Silenziosamente e con fare composto si sarà sicuramente adagiata, in maniera immediata, tra le braccia del suo Giuseppe.

La nipote ebbe la sensazione che la terra si fosse fermata all’improvviso, che avesse cessato di girare come un’ebete su se stessa.

Tre anni più tardi fu raggiunta, presso la dimora di Dio, da quel gran simpaticone di suo genero, colui il quale fu l’artefice dell’indimenticabile nomignolo: “Donna Pinù”.

E la “picciridda?”

La nipote che batteva forte i piedini sul pavimento e che scalciava come una matta perché non voleva andar via dalla sua nonna, che fine ha fatto?

Beh, la nipote sono io e la nonna Pina è stata la mia grande madre.

Adesso sorvola l’immenso in compagnia di mio padre, rivanga la preparazione dei maccheroni conditi con il sugo fresco, mi guarda amorevolmente e con un po’ di materna apprensione, inducendomi ad accettare che tutto è sancito da un inizio e che inevitabilmente, ahimè, ha purtroppo anche una fine.

Ciao, “Donna Pinù! “…

Maria Cristina Adragna

“Il ponte” di Maria Cristina Adragna

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Maria Cristina Adragna
Siciliana, nasco a Palermo e risiedo ad Alcamo. Nel 2002 conseguo la Maturità Classica e nel 2007 mi laureo in Psicologia presso l'Università di Palermo. Lavoro per diverso tempo presso centri per minori a rischio in qualità di componente dell'equipe psicopedagogica e sperimento l'insegnamento presso istituti di formazione per operatori di comunità. Da sempre mi dedico alla scrittura, imprescindibile esigenza di tutta una vita. Nel 2018 pubblico la mia prima raccolta di liriche dal titolo "Aliti inversi" e nel 2019 offro un contributo all'interno del volume "Donna sacra di Sicilia", con una poesia dal titolo "La Baronessa di Carini" e un articolo, scritti interamente in lingua siciliana. Amo anche la recitazione. Mi piace definire la poesia come "summa imprescindibile ed inscindibile di vissuti significativi e di emozioni graffianti, scaturente da un processo di attenta ricerca e di introspezione". Sono Socia di Accademia Edizioni ed Eventi e Blogger di SCREPmagazine.

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