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Cara maturità ti scrivo…
Sono passati più di due mesi senza scuola, senza compagni e senza professori in carne ed ossa. Sullo schermo del mio tablet vedo le loro immagini sbiadite, lattiginose, scomposte in migliaia di pixel proprio come le nostre vite, distanti le une dalle altre.
Le voci, risucchiate per qualche secondo nel buco nero della rete e restituite in ritardo in forma di echi freddi e metallici, mi sembrano così diverse che quasi faccio fatica a riconoscerle.
Ci incontriamo sulle piattaforme di apprendimento, il pigiama nascosto sotto una felpa, gli occhi ancora gonfi di sonno, i capelli, ormai ingestibili, lasciati liberi di vagare nello spazio in ogni direzione oppure imbrigliati in una coda di cavallo.
La professoressa di italiano non porta più il rossetto che mi piaceva tanto né la collana di perle che rimanevo a guardare incantata mentre sedeva in cattedra.
Anche il suo sguardo, sempre pronto a incendiarsi di passione per i versi di un sonetto, ormai mi pare spento.
Allora, per non rassegnarmi a un tale grigiore, voglio immaginare che sia stato domato da una lacrima che improvvisa si è affacciata tra le ciglia.
Anche loro, gli inossidabili prof, stanno subendo, proprio come noi, l’erosione di uno spazio interiore fondato sulle certezze di sempre, quelle certezze che almeno nel microcosmo scolastico nessuno avrebbe mai osato mettere in discussione.
In questa rivoluzione copernicana della didattica, al centro dell’universo adesso non ci siamo più noi, vivi e veri, ma figure evanescenti che devono lottare per trasmettere via etere le proprie emozioni.
Non riusciamo più a farci ascoltare veramente, a dire la nostra tramite una smorfia di disapprovazione, a giustificarci per una mancanza anche semplicemente con gli occhi come eravamo soliti fare.
E allora semplicemente ci teniamo tutto dentro.
Avvolti in un clima surreale, dove la tecnologia è la vera regina, noi sudditi siamo un po’ tutti allo sbando.
I problemi di connessione sono all’ordine del giorno.
A Martina non funziona il microfono, a Federica la telecamera, Giulio invece appare e scompare come fosse un fantasma. I professori vivono nel sospetto.
Il dubbio amletico sorge spontaneo: è o non è il segnale il vero problema?
Convinti che il male sia una dimensione connaturata alla condizione umana, infine, cedono all’idea che il problema di collegamento sia il frutto del sabotaggio diabolico dell’astuto studente di turno.
Allora finché non sperimentano essi stessi la frustrante esperienza, toccando con mano la ferita virtuale, non credono.
Nonostante tutto, devo ammettere che in mezzo al mare delle difficoltà, i nostri insegnanti stanno navigando abbastanza bene o almeno quel tanto che basta per rimanere a galla.
Le spiegazioni, i compiti e le interrogazioni on line, punti di riferimento che continuano ad indicarci la rotta, sono le isole riemerse, con vesti nuove, dopo lo tsunami che ci ha colpito.
Anche i docenti che con la tecnologia facevano a pugni stanno compiendo uno sforzo immane per ridefinire il proprio ruolo.
Si agitano, si dimenano, si struggono per cercare di tenere sotto controllo una situazione per sua natura sfuggente e tentano di riprodurre in questo surrogato di aula scolastica le condizioni del passato.
Prima bastava un unico sguardo che spaziava da destra a sinistra nella classe per riportarci tutti all’ordine mentre adesso è necessario snocciolare i nostri nomi, novelli grani del registro elettronico, in attesa di avere la risposta che stiamo effettivamente seguendo la lezione.
Eh sì, perché questo metodo di apprendimento online richiede maggiore serietà da parte nostra e anche una maggiore concentrazione e dedizione allo studio rispetto al passato.
La tentazione di usare il telefono, proprio come facevamo in classe di nascosto, o di ascoltare la musica al posto della spiegazione, si fa ancora più potente.
È proprio in questo momento, in cui solo la forza di volontà e la lungimiranza possono tenerci saldi sulla strada verso la meta, che deve venire fuori la nostra maturità.
Tutte queste limitazioni mi hanno ricordato il vero valore della scuola in presenza, quella fatta di relazioni autentiche.
Della scuola mi manca tutto, eppure non l’avrei mai detto. Noi studenti abbiamo sempre desiderato stare a casa per non doverci alzare presto al mattino e affrontare sei lunghe ore di lezione.
Adesso che questo “desiderio” è diventato realtà, cerchiamo disperatamente il genio della lampada, scomparso insieme alla nostra quotidianità, affinché ci riporti indietro quello che avevamo e che non abbiamo mai apprezzato fino in fondo.
Mi manca il mio vecchio banco pieno di graffi e di scritte. Ora, mentre ascolto la videolezione seduta in camera mia, mi ritrovo a cercare nel vuoto il cuore inciso sullo strato di formica verde che percorrevo con le dita, infinite volte, per scacciare l’ansia prima dell’interrogazione.
A volte tra una videolezione e l’altra ricerco ancora il suono della campanella, un segno gioioso che mi dica che l’ora è finita.
Mi mancano i libri accatastati alla rinfusa nel mio sottopiano sbilenco, i fogli fruscianti sparsi qua e là, il gesso che stride sulla lavagna, la zip dell’astuccio di Gabriella che si apre e si chiude decine di volte al giorno.
E poi il cigolio delle sedie, il ronzio delle chiacchiere di Samuele e Francesco, il ticchettio della matita sul banco, il balzo della gomma a terra e tutte le note stonate che insieme costituivano il melodioso rumore di sottofondo delle nostre giornate.
Nonostante il bip di qualche notifica sui cellulari non silenziati o il fruscio della carta di una merenda aperta di nascosto, riuscivamo a immergerci nelle poesie del ‘900, nelle battaglie epocali, nelle parole di quegli autori così lontani eppure così vicini a noi nel sentire, nello sperare, nell’amare.
Mi mancano persino le urla british della professoressa di inglese e l’odore acre di scarpe da ginnastica e di ormoni impazziti tipico di questa stupenda fase della vita.
Bastava aprire le finestre e tutto sarebbe svanito, trasportato dalla corrente che ti accarezzava le spalle lasciandoti all’indomani come ricordo solo una bella raffreddatura.
E poi c’erano gli amori, quelli che stavano per sbocciare, insieme ai fiori di primavera. Il mio è rimasto intrappolato tra i petali di un bacio mai dato, sotto il Ponte dei sospiri, in una gita a Venezia dove il nostro autobus non è più approdato.
A pensarci bene, per noi che avevamo deciso di rinunciare a qualche divertimento pur di riempire il salvadanaio, il viaggio di istruzione tanto atteso sarebbe stato un modo per avvicinarci a te, cara maturità. E invece anche questa esperienza è fuggita via, senza nemmeno salutarci, sul treno del distanziamento sociale.
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