4 marzo 2020… ultimo giorno di scuola…
Se qualcuno me l’avesse detto poco più di tre mesi fa, l’avrei preso per un visionario.
Scoprire solo ora di aver vissuto l’ultimo giorno di scuola della mia vita senza neanche saperlo mi riempie di amarezza. È come quando saluti una persona cara alla stazione ma non immagini che non la incontrerai mai più. Le parole non dette torneranno invece, infinite volte, ad agitarsi tra i tuoi pensieri come il fazzoletto bianco che ancora vedi svanire in lontananza.
Se solo avessi saputo, l’avrei salutato degnamente quell’ultimo giorno. L’avrei abbracciato e baciato come un amore salito su un treno, così, all’improvviso, per un viaggio senza ritorno.
Poco dopo quel fatidico 4 marzo, avrei dovuto festeggiare i 100 giorni insieme ai miei compagni d’avventura.
Per noi doveva essere l’ultima occasione per sentirci leggeri e spensierati prima di immergerci in un lungo e faticoso periodo di studio. Era stato tutto perfettamente programmato: casa al mare prenotata per il week end, spesa fatta, lista delle cose da mettere in valigia pronta da un pezzo. Per l’occasione avevamo persino fatto stampare delle t-shirt con davanti un ferro di cavallo e dietro frasi goliardiche personalizzate in base al carattere di ciascuno.
Io, inutile dirlo, avevo quella dell’eterna sognatrice.
Difatti la sera con il chiarore della luna, avrei scritto il voto che desideravo sulla sabbia della battigia, pregando le onde di cancellarlo per bene. Secondo un rito scaramantico diffuso tra noi studenti sarebbe stato un segno di buon auspicio, e il risultato garantito.
Invece il viaggio verso quel luogo simbolico, che è il mare, non l’ho più intrapreso e il voto non l’ho mai disegnato, se non nella mia testa.
La scatola di cartone tatuata con i disegni strampalati di Luca e con le nostre firme di sbieco rimane qui, nella mia cameretta, come un piccolo tesoro che non oso sfiorare.
Ricordo che ridevamo come matti mentre giravamo per la scuola implorando i professori e i ragazzi delle altre classi affinché inserissero l’obolo nella fessura. Per noi studenti squattrinati, il fare la questua, piuttosto che un’umiliazione era un momento di esultanza, una gara a chi raccoglieva più fondi per finanziare, secondo tradizione, il nostro giorno speciale.
Eravamo noi i protagonisti della scena prima che il tempo si fermasse, ingabbiato anche lui da questo maledetto lock-down. Ora ci ritroviamo come semplici comparse in un film che non sappiamo ancora come andrà a finire mentre i registi, in preda alla confusione, fanno e disfanno la trama del nostro esame di maturità.
Abbiamo perso per sempre la spensieratezza di quei 100 giorni negati, saliti anch’essi, insieme al 4 di marzo, su un treno che non riusciremo più a catturare. Qualcuno dirà che è poca cosa rispetto ai gravi problemi che stiamo affrontando ma siamo ragazzi e viviamo di sogni.
E poi abbiamo bisogno anche di certezze, quelle che in questo periodo ci stanno tremendamente mancando.
Simona Riccardi@Copyright2020
Continua…
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