Anna Frank

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Per la Giornata della Memoria vi propongo un capitolo del mio libro,

Lungo viaggio verso il ritorno 1.

 LA RAGAZZINA EBREA

«Psss… psss! Oh, dico a te!».

Qualcosa lo colpì sulla testa. Leo si risvegliò malamente; «Ahia!», urlò recuperando dai capelli una piccola pietra.

«Psss… psss! Ehi, dico a te!». Di scatto saltò in piedi con la mano ancora sulla testa, si guardò intorno per capire chi lo avesse colpito, ma non c’era nessuno. “Da dove proveniva quella voce?”.

Leo si guardò intorno. Si trovava in un quartiere diverso da quello di Martin. Non c’era nessuno per la strada in quel momento, in lontananza un viale alberato e dei grandi palazzi, davanti a lui si affacciava un canale su cui navigavano pesanti barconi, che lo attraversavano lenti; al limitare del naviglio faceva capolino un vecchio ponte.

“Questo silenzio è inquietante. Dove caspita sono finito?”

Iniziò ad osservare il vecchio caseggiato che aveva innanzi. Doveva essere una vecchia fabbrica, si sentivano rumori provenire dall’interno, forse stavano lavorando; ecco perché non c’era nessuno in giro, comprese che il suo sogno non era ancora terminato.

Un nuovo sassolino lo colpì in testa.

«Dove sei?», urlò Leo arrabbiato.

«Sono quassù!». Con lo sguardo seguì l’alto fabbricato, finché scorse da una finestrella, coperta da pesanti tendaggi, un’esile mano che si muoveva avanti e indietro. «Oh, ti ho visto! Che ci fai lì?».

«Tu piuttosto che ci fai lì? ‒ proseguì una voce femminile ‒

Se ti trovano i nazisti sei finito; vieni davanti all’ingresso, vengo ad aprirti: non puoi stare lì fuori, è troppo pericoloso!» Il rumore di una camionetta destò Leo dalle sue riflessioni. Spaventato, non perse più tempo e corse davanti all’entrata dell’edificio.

Fece appena in tempo a leggere il numero civico, il 263 di Prinsengracht, scritto dinanzi all’abitazione, che qualcuno lo afferrò e lo portò all’ interno.

Bobo lo seguì a ruota.  Leo si trovò a terra su un vecchio pavimento di pietra, la porta dietro di lui fu chiusa repentinamente.

«Dai, seguimi!», disse seria una ragazzina.

Leo la scrutò, sorpreso dalla forza con cui l’aveva trascinato all’interno; a occhio e croce doveva avere più o meno la sua età, era molto pallida, col viso ovale; gli occhi erano grandi e scuri, i capelli castani le cadevano sulle minute spalle, il volto era evidenziato da un grande sorriso.

«Dai, vieni, non possiamo rimanere qui!», lo prese per mano. Leo la seguì perplesso; si fermarono davanti a una vecchia libreria e la ragazzina la spostò, proprio come se stesse aprendo una porta.  «Wow! Un passaggio segreto! È la prima volta che ne vedo uno!», esclamò lui entusiasta. Lei sorrise, entrarono in un piccolo locale ben arredato: “Se questo è un nascondiglio, è stato sistemato davvero bene!” pensò Leo. Subito si palesarono gli altri inquilini, Leo restò spiazzato da tutte quelle persone in un posto così piccolo.

«E lui chi è? Anna, sei forse impazzita? Sai che non devi uscire per nessun motivo dal nascondiglio!», disse a voce bassa un uomo.

La ragazza rispose in tono calmo e sicuro: «Hermann, calmati! Era solo, se i nazisti lo avessero visto sarebbe stato catturato e solo Dio sa che fine avrebbe fatto! Non potevo mica lasciarlo lì!».

«E se fosse anche lui uno di loro?», esordì una voce civettuola.

La ragazza intervenne nuovamente: «Ma, signora Auguste, non penso proprio che questo ragazzino faccia parte dei nazisti!».

«Nazisti!», urlò Leo.

«Zitto! Vuoi che ci scoprano?», sussurrarono all’unisono.

Leo iniziava ad avere un’idea più o meno precisa di dove si trovasse: senz’altro era periodo di guerra, ma quale guerra? Osservava i volti di quelle persone che lo esaminavano in modo per niente amichevole.

L’unico che lo guardava divertito era un giovane dai capelli arruffati di color corvino, che gli si avvicinò, presentandosi: «Ciao, io sono Peter e tu chi sei?».

Anche la ragazza sorridendo disse: «In tutta questa confusione non mi sono neanche presentata. Piacere, io mi chiamo Anna Frank.»

Leo strinse la mano del ragazzo e poi della ragazza, che conosceva per sentito dire: sapeva chi era e che non sarebbe diventata un’adulta. Deglutì diverse volte prima di poter parlare, poi con voce spezzata dall’emozione rispose: «Io sono Leo ‒ e indicando il cane, che nel frattempo si era nascosto sotto il tavolo ‒ Lui è Bobo».

Anna sorrise: «Che ci facevi là fuori da solo? Dove sono i tuoi genitori?».

«Sono solo!», rispose Leo.

«Non sai dove poterli rintracciare?».

Leo ebbe timore di dire la verità, e mentì spudoratamente: «Sono stati presi dai nazisti!».

«Deportati?», chiese una voce femminile.

«Sì, signora», rispose Leo, non certo di ciò che significasse quella parola.

«Oh povero ragazzo! ‒ proseguì la donna con gli occhi scuri e i capelli raccolti in una crocchia. Poi avvicinandosi se lo strinse al petto ‒ Io sono la mamma di Anna, non ti preoccupare, qui sei al sicuro!»

Un uomo calvo ed esile si avvicinò e pose una mano sulla spalla della donna: «Edith, non sappiamo che intenzioni abbia il ragazzo, deve decidere lui il da farsi!».

«Certo caro, hai ragione!», assentì la donna, con gli occhi velati di lacrime.

Poi l’uomo abbracciò vigorosamente Leo, «Mi dispiace molto per i tuoi genitori, ma per fortuna almeno tu sei salvo! Non ti preoccupare, ragazzo, qui c’è posto anche per te se vuoi rimanere. Io sono Otto Frank, il marito di Edith e padre di Anna e di Margot», disse indicando quest’ultima, che era seduta in disparte in fondo alla stanzetta. «Piacere, signore», disse rispettoso Leo; poi osservando la ragazza fece un breve cenno di saluto con il capo e la vide arrossire da dietro i suoi giganteschi occhiali dalla rossa montatura.

Nel frattempo Anna singhiozzava e abbracciò anche lei Leo, che arrossì per la vergogna di aver detto quella tremenda bugia. Per fortuna qualcuno lo tolse da quell’imbarazzo.

«Brutto cagnaccio! Scendi subito dal tavolo, molla il cacio!»

Bobo, approfittando della confusione generale, era salito sul tavolo e non aveva resistito a quel bel pezzo di formaggio, solo soletto, dentro il piatto; ora in quei pochi metri quadri tentava di fuggire inseguito da Hermann, che lo rincorreva tentando di non far rumore. La fuga durò poco: il cane si rifugiò nell’unico posto sicuro che conoscesse: ai piedi del suo padrone; Leo mortificato gli tolse di bocca il pezzo di formaggio, tentando di ripulirlo, e lo riconsegnò all’uomo, scusandosi: «Le chiedo scusa, il mio cane è un gran pasticcione».

Hermann e gli altri osservarono la bestiola, che con le zampe sul muso stava accovacciata a terra in segno di pentimento. Una risata generale smorzò la tensione.

«Silenzio!  ‒ ordinò Otto ‒ volete che gli operari ci sentano?» Gli occhi ilari dei presenti ritornarono a farsi vigili e tesi. Anna accarezzò il cucciolo dandogli un po’ di pane raffermo, che Bobo mangiò di gusto; poi osservando Leo disse: «Anche tu avrai fame».

Edith intervenne: «È quasi ora di pranzo, gli operai stanno tornando a casa e ora possiamo preparare il pasto e parlare liberamente!».

«Miep sta per arrivare! Chissà che ci porterà quest’oggi?», disse felice Anna.

Leo la guardò curioso.

«Sì, Miep è uno dei nostri angeli custodi. I nostri benefattori ci procurano cibo e il necessario per sopravvivere qui dentro.»

«Se non ci fossero stati loro, non so proprio come avremmo fatto!», intervenne malinconica la mamma di Anna; e asciugandosi gli occhi sul suo vecchio grembiule, si mise al lavoro riscaldando la zuppa. Leo con gli altri la divorarono in silenzio.

Dopo il pasto Otto chiese: «Allora ragazzo, rimani con noi?».

«Beh! Io veramente…»

Non finì la frase, perché Auguste sbottò: «Il ragazzo da qui non esce! E se poi ci tradisce? Se racconta a qualcuno dove ci troviamo?».

«Ha ragione Auguste!  È troppo rischioso, Otto, non possiamo farlo uscire!», sentenziò suo marito Herman.

Il signor Frank ragionò a lungo, poi decretò mesto: «Mi dispiace ragazzo, ma dovrai stare qui con noi, non possiamo fidarci, ci sono troppe vite in gioco!».

Leo, rassegnato, sapeva che non avrebbe avuto scelta; doveva accettare la volontà di quelle persone e sperare solamente di risvegliarsi presto. “Mamma dove sei? Ti prego mamma, svegliami!” supplicò in cuor suo il ragazzo.

 Anna, vedendo Leo con gli occhi colmi di lacrime, disse: «Dai, non ti preoccupare, la liberazione è vicina! Qui starai bene, sei al sicuro!». Leo accennò un flebile sorriso. Quando gli operai, nel pomeriggio, ripresero a lavorare nelle due industrie adiacenti al nascondiglio, tutti ripresero a sussurrare: molti leggevano, altri scrivevano; la signora Auguste faceva maglia con la signora Edith, Margot era impegnata nella lettura, Peter e Anna scrivevano seduti ad un tavolo.

Leo era seduto su una seggiola con Bobo che sonnecchiava sulle sue ginocchia. Temeva pure di respirare, nella sua testa le riflessioni si accavallavano: pensava ad Anna Frank, la ragazza ebrea che scrisse un diario famoso in tutto il mondo; avrebbe voluto raccontarle che un giorno il popolo ebreo avrebbe trovato pace e che il suo diario sarebbe diventato uno dei libri più letti, ma come poteva dirle che tra pochissimo tempo sarebbe morta? Non conosceva bene la storia di Anna, ma ricordava che il professore, una mattina in classe, nel giorno della memoria per tutti gli ebrei trucidati nei campi di concentramento, aveva parlato a lungo di questa ragazzina. La giornata passò lenta e silenziosa. Leo osservava Otto che a bassa voce dava lezioni alle due figlie ed Edith che continuava a lavorare con i ferri da calza mentre sulle sue guance le scivolava qualche lacrima; guardava Peter intento nelle sue letture, tutte persone che non avevano più una loro vita, solamente perché erano ebrei. “É ingiusto!” pensò amareggiato.

Anna guardò Leo, muto su quella seggiola, e lentamente si alzò, sotto gli occhi vigili di Peter.

«Dai, vieni. Ti mostro una cosa!»

Leo la seguì con passo lento: tutti in quella casa camminavano così: ogni passo era ponderato, misurato, come se il pavimento fosse minato. Anna lo portò nella sua cameretta: era piccola e umida. Sedettero sul letto e Bobo si accucciò in mezzo ai due; la ragazzina tirò fuori da sotto il cuscino un quaderno con la copertina a quadrettoni rossi e bianchi. Leo nel vederlo deglutì, capendo di che cosa si trattava. «Guarda questo quaderno ‒ gli disse Anna ‒ me l’hanno regalato per il mio tredicesimo compleanno ed è diventato il mio diario, il mio miglior confidente. Qui annoto le mie emozioni, le mie angosce! Sai, ho tanta paura che i nazisti ci trovino. Non voglio finire uccisa come un animale, anzi peggio! La nostra gente viene deportata su treni adibiti al bestiame e rinchiusa in baracche dove è costretta a lavorare. Donne, vecchi e bambini senza differenze di età.

Non danno loro il cibo e molti muoiono di fame, altri di malattie, altri vengono direttamente portati ai campi di concentramento e uccisi nelle camere a gas. Oh Leo! Ma perché gli uomini sono così crudeli? L’unica colpa che abbiamo è di appartenere a una razza a quanto dicono loro impura, ma io sono fiera di essere nata ebrea!».

Leo restò spiazzato dalla consapevolezza di Anna. Questo sogno non gli piaceva: aveva tanta paura, non voleva trovarsi lì, in quell’epoca. Ricordò che un giorno aveva visto al telegiornale alcuni servizi su Auschwitz su quella povera gente uccisa nei campi di sterminio.  La mamma aveva insistito perché guardasse quelle immagini così crude: «Guarda Leo! ‒ gli aveva detto ‒ cosa la cattiveria umana può fare! Fai tesoro di questo, in modo che tu un giorno possa diventare un uomo migliore!».

Leo aveva annuito, ma l’unica cosa che pensava osservando i volti scarni, esangui di quelle persone, riprese in quei filmini in bianco e nero, era “Meno male che non ci sono io lì!”. Ma ora per uno scherzo del destino il suo sogno l’aveva fermato a casa di Anna Frank, e si vergognava di quei suoi pensieri.

I giorni trascorrevano tutti uguali e ormai Leo si stava abituando a quel silenzio forzato, interrotto solo di notte quando le fabbriche erano chiuse e si poteva parlare liberamente. A volte scoppiavano liti, la tensione era molto alta, anche Leo l’avvertiva e il timore di essere scoperti era sempre più forte. Di sera lui e Anna spiavano i vicini con un vecchio binocolo. Anna diceva: «Posso vedere ciò che avviene solo in questo modo! Mi manca la mia libertà, ma sono fiduciosa che presto verremo liberati e questo rimarrà solo un brutto ricordo della mia vita!».

Leo a quelle parole inghiottì la saliva: avrebbe voluto avvisarla, dirle che le sarebbe successo qualcosa, ma non sapeva bene cosa. Tra sé pensava che se avesse dato più ascolto alle lezioni del professor Rossi, anziché scambiarsi le figurine sotto il banco con Marco, forse avrebbe potuto aiutare Anna.

Un mattino, strani rumori allarmarono i rifugiati. Uomini in divisa con la pistola puntata irruppero nel nascondiglio. Ad Anna scivolò il diario dalle mani, i fogli si sparsero sul pavimento. Leo urlava: «Lasciatela stare!».

Bobo ringhiava tentando di mordere la caviglia di una guardia, ma un calcio di stivale spinse la bestiola dolorante contro un muro. Anna guardò negli occhi per un’ultima volta il suo nuovo amico, consapevole che la sua fine era vicina.

Singhiozzando lui le urlò: «Anna ti aiuterò! Anna, Anna!».

Poi vennero divisi: Leo venne sbattuto in una cella buia e maleodorante accanto a molti altri ebrei tutti destinati a finire nei campi di concentramento. Singhiozzò, si disperò per Anna, per tutte quelle persone. Pensava alla mamma e si mise a urlare: «Mamma! Mamma! Portami a casa! Vieni a prendermi!».

Impaurito e spossato, cadde in un sonno profondo sotto gli occhi ormai senza lacrime degli uomini accanto a lui.

“Viviamo tutti con l’obiettivo di essere felici.

le nostre vite sono diverse, eppure uguali.”

Anna Frank

(1929‒1945)

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