La commozione e i racconti di Mimì
di
Mimmo Di Carlo
Ci siamo mai chiesti cos’è la commozione?
Il Cardinale Gianfranco Ravasi afferma che “si tratta di una spezia da maneggiare con cautela perché, come tutti i sentimenti, se in eccesso, genera sdolcinature insopportabili, eccessi enfatici, retorica emotiva.
Eppure, non solo nelle prediche ma anche nelle relazioni umane, non si deve amputare la partecipazione appassionata; non ci si deve vergognare se il cuore accelera i battiti e se talora affiorano le lacrime sulle ciglia.
Non si vive solo di comunicazioni asettiche come quelle degli aeroporti o delle stazioni ferroviarie.
Nell’esistenza ci sono momenti che turbano e sconvolgono e non si deve, per falsa virtù o eroismo, rimanere di bronzo.
Si provano esperienze che generano pianto e dolore ed è giusto invocare aiuto e conforto.
Ci sono verità (non solo di fede) che suppongono un’adesione fremente e non un assenso freddo come a un teorema geometrico.
Commuoversi non è segno di debolezza ma di umanità”.
La commozione rappresenta momenti di accoglienza e di solidarietà con sé stessi e con il mondo esterno, descrive una sorta di sintesi intensa e di unione con la tenerezza, la pietà, l’ammirazione, la compassione e si manifesta con gli occhi lucidi o addirittura con il pianto, valvola di sfogo di un sentimento di felicità o tristezza.
È un irresistibile effetto collaterale dovuto all’incontro con una pagina di un libro, di una scena di un film, con un gesto di bontà e suona come un benefico farmaco.
È un sentimento struggente che esplode in lacrime e lancia un messaggio d’amore verso la parte più intima di ognuno di noi colorandolo e facendolo scorrere sul nostro viso.
Tutto questo ci fa apparire veri, autentici e lontani anni luce dall’ipocrisia e dalla falsità che ci circonda.
In altri termini, ci fa gattonare, ci fa tornare bambini privi di furbizie e di scudi protettivi e fa ritrovare noi stessi, la nostra umanità, la nostra purezza d’animo.
“Più si va avanti negli anni e più la commozione si impadronisce facilmente di te.
Perché? Perché la commozione, figlia di tanti anni di sofferenze e delusioni, è quel sentimento che ti fa apprezzare ciò che da bambino, giovane o maturo, non riuscivi a percepire.
Ci si commuove vedendo un nonno che piange senza freni davanti alla nipotina che balla al saggio di fine anno, seguendo il prete che all’omelia ti ricorda come ci si deve comportare per essere fedeli al messaggio di Cristo, ascoltando la poesia che riempie le note delle tue canzoni preferite, al cospetto del tuo migliore amico che è riuscito, come desiderava, a morire senza essere schiavo della solitudine ed infine davanti al racconto di tante altre vite disperate che tuttavia sono riuscite a non mollare.
Insomma, ci si commuove perché finalmente si è liberi dalle miserie umane, dal richiamo del dio denaro, perché il destino ti sta con il fiato addosso e tu sai che non puoi fare nulla per allontanarlo” afferma Mimmo Di Carlo nell’introduzione del suo libro “I racconti di Mimì”, edito nel maggio 2021 e frutto della commozione che ha provato guardando in tv le cronache dell’incalzare della pandemia da Covid -19 e “i segni sul viso dei tanti operatori sanitari che hanno dimostrato che gli italiani sono un popolo non solo di santi, poeti e navigatori ma anche di eroi silenziosi”.
Un libro nato dalla riflessione emotiva di un uomo che, grazie al lockdown imposto dalla pandemia e dalla “camurria del coronavirus”, ha avuto l’opportunità di scrivere una serie di racconti, figli della profonda commozione che lo attraversava spingendolo a comunicare verso l’esterno, verso gli altri anche per abbattere la noia, colorare e riempire la vita e renderla più viva.
“Domenico Renato Di Carlo, per amici e familiari Mimmo,” – mi dice l’ing. Valerio Montalbano con cui Mimmo ha scritto a quattro mani “U dutturi”, leggi mio articolo del 15 maggio dello scorso anno “U dutturi c’è e ci sarà”, – è un settantenne, pensionato dal 2013, palermitano d’adozione, sposato con Ina da quarantotto anni, padre di quattro figli e nonno di quattro nipoti, diplomato al liceo classico e laureato in Scienze Politiche.
Nella vita, oltre al lavoro da bancario, si è sempre occupato di “politica” nel senso alto del termine.
Proprio la Politica gli ha insegnato, forse, meglio dire, obbligato, a leggere quanti più testi possibile e gli ha anche dato occasione di scrivere per altri, inizialmente scalette per i comizi in paese, poi recensioni su proposte di delibera, poi ancora su disegni di legge ed infine discorsi per le assisi di partito.
La sua attività professionale e politica l’ha portato a conoscere tantissimi luoghi, tantissime persone, ma soprattutto tantissime storie, alcune simpatiche, altre tristi, tutte comunque molto strane.
Da ognuna ha ricavato un messaggio, una riflessione, una indicazione sulla strada da seguire.
Quaranta e passa anni di stare in mezzo alla gente, capire i loro bisogni, condividere le loro ansie ed i loro progetti è stata una esperienza entusiasmante per la sua vita.
Il tempo libero lo dedica alla lettura di romanzi gialli o di racconti di storia provando anche a cimentarsi nella scrittura di brevi favole per i nipoti.
Ha anche scritto in auto-pubblicazione “Gli uccelli non hanno nome”, “Il sapore della libertà”.
Dal 2014 al 2017 ha vissuto a Malta dove ha avuto modo provare sulla sua pelle la condizione di straniero, del diverso e di toccare con mano la diffidenza che la maggioranza degli indigeni gli riservava.
Qualcosa di traumatizzante!
Mimmo rientra a Palermo su “ordine” dei nipoti, riprendendo a frequentare la parrocchia del quartiere con la voglia di essere utile a chi ne ha bisogno”.
Ed ora eccolo qui, in questa nicchia di ScrepMagazine, con i suoi dodici “racconti di Mimì”, che continuano ad essere di stringente attualità, visto il perdurare della pandemia sotto le vesti della “variante Omicron”, dopo essere passata sul binario della “variante Delta”.
Fiore – Di quale “quid” bisogna dotarsi quando si racconta una storia?
Di Carlo – Caro Fiore, quando si entra in contatto con l’umanità per raccontare una storia, è necessario dotarsi di candore, di vedere il mondo con gli occhi di un bambino. Gli occhi dei bambini, infatti, non sono ingenui, sanno valutare con severità ma si lasciano conquistare dalla sorpresa senza dare nulla per scontato.
Fiore – Come sono nati i tuoi racconti?
Di Carlo – La notte tra il sette e l’otto marzo del 2020 ho postato su Facebook un racconto che cominciava così: “Il coronavirus è na bedda camurria” e si concludeva con “il resto la prossima settimana”.
Fiore – E quindi?
Di Carlo – Non ho mantenuto l’impegno di pubblicare la seconda parte perché decidevo nel frattempo di dedicarmi anima e corpo ad altri racconti per farne una raccolta.
Fiore – Come ti è venuto in mente di continuare lungo il filone già sperimentato in precedenza dello scrivere favolette?
Di Carlo – Quando decisi di scrivere su Facebook una piccola favola in due stati, lo feci per capire se la “disubbidienza a criteri di sintesi e velocità di lettura, tipo flash” potesse eccitare la curiosità del lettore-amico, insomma se questo modello potesse avere cittadinanza sui social. Capii dai commenti, che in qualche maniera avevo catturato la loro attenzione, in qualche modo ero riuscito a coinvolgerli in argomenti più familiari, quasi intimi.
Fiore – Insomma da amici reali e non virtuali…
Di Carlo – Capii che si può ragionare sui sentimenti senza divisioni religiose, senza distinzioni sociali o politiche e che quando racconti la vita gli altri sono attenti e forse, anzi certamente, la sanno raccontare meglio di te. Ed era quello che serviva in quel momento in cui tutti eravamo schiavi dei capricci del virus e tutti dovevamo fare squadra per sconfiggerlo.
Fiore – Si dice che da vecchi si ritorna bambini. È vero? E, se vero, è un bene?
Di Carlo – Assolutamente vero! Tra l’altro io vivo il quotidiano all’insegna dello scoprire sempre cose nuove, all’insegna della straordinarietà, cercando sempre di guardare il mondo con gli occhi di bambino perché i bambini guardano fantasticando, hanno lo sguardo pulito, non sono vittime delle abitudini a volte malvagie degli adulti, non vedono nell’altro un diverso, qualcuno da odiare, qualcuno da scartare. Non interessa loro il colore della pelle, da dove vengono, quale lingua parlano a casa. Ai bambini interessa giocare con il compagno di scuola, abbracciarlo, dargli baci, salutarlo ogni volta che lo vede, pensare che il suo compagno faccia parte della sua vita…
Fiore – In sintesi vivere una vita di pace e di solidarietà…
Di Carlo – Sì, una vita serena e solidale che dovrebbe essere la normalità. Invece la normalità per gli adulti ha valori diversi rispetto a come la decifrano i bambini. Noi adulti siamo pieni di pregiudizi, i secondi sono puri. I bambini sembrano, anzi sono, tutti figli del più grande rivoluzionario di ogni tempo, Cristo, colui che oltre 2000 anni fa spiegava ai commercianti di uomini che non c’era differenza tra schiavo e padrone perché tutti erano figli dello stesso Dio.
Fiore – Ne stai facendo una questio religiosa…
Di Carlo – No! Non ne faccio una questione religiosa, sono cattolico anche se poco praticante, ma una questione di etica, di indagine speculativa intorno al comportamento pratico dell’uomo di fronte ai concetti del bene e del male. Non dimentichiamoci cosa è successo negli ultimi decenni in Italia e nel mondo: inquinamento, guerre, carestie, emigrazione, odio sociale, odio verso il diverso, bramosia di ricchezza, speculazione finanziaria… e chi più ne ha più ne metta, tutto in funzione del dio denaro. Ora, invece, un minuscolo essere, che neanche riusciamo a vedere, ci ha fatto capire che tutto quello che abbiamo costruito sta per crollare, che quando riusciremo a sconfiggerlo nulla sarà più come prima e che il mondo dovrà essere ripensato in modo diverso. Fare ammenda degli errori, a qualsiasi livello di responsabilità, sarà un atto dovuto, sarà un obbligo assoluto verso i bambini, quelli che domani saranno la nostra classe dirigente, ammesso che riusciamo a dare loro il tempo e le condizioni per crescere.
Fiore – Mi stai dicendo che tu con le favole hai individuato il modo per la crescita dei bambini?
Di Carlo – Sì, e lo faccio nell’unico modo che, credo, mi riesca discretamente… raccontare storie che possano essere lette con facilità, ma che abbiano soprattutto un messaggio d’amore e fratellanza.
Fiore – Perché il coronavirus con le sue varianti è ‘na bedda camurria?
Di Carlo – Il coronavirus è ‘na bedda camurria, perché da quando è nato, in tutte le salse, ci hanno detto cosa devi fare e come devi comportati se non vuoi che ti imprigioni. In ogni caso ciò che più mi ha fatto rabbia è stato che gli ultrasessantacinquenni non potevano uscire di casa. E qui cascava l’asino… sembrava che ce l’avessero con me, avendo io qualche anno in più di quella indicata nei vari decreti!
Fiore – Quindi?
Di Carlo – Obtorto collo, per amore dei miei cari, osservai scupolosamente quanto dettato e ordinato, standomene a casa con mia moglie, chiacchierando e mangiando, forse anche un po’ troppo…
Fiore – Solo?
Di Carlo – No! Non sapendo cucinare, non conoscendo i segreti del governo di una casa, di come funziona una lavatrice o una lavastoviglie, di come si accende il gas, un perfetto estraneo alla gestione quotidiana di una famiglia, decido di dedicarmi alla mia passione: scrivere… anzi narrare.
Fiore – Ed eccoci alla prima storia… o meglio alla cronaca di un fatto reale. Vai, caro Mimmo…
Di Carlo – Il dodici marzo 2020 fu una giornata speciale perché mia suocera, ottantuno anni compiti a settembre, pensò bene di lavare le tende di casa sua e di riappenderle ancora bagnate per evitare di stirarle. Smontaggio e lavaggio alla grande, il rimontaggio presentò alcuni problemi per via del peso delle tende inzuppate d’acqua. Erano troppo pesanti e, nel tentativo di aggancio alla zineffa, cadde dalla scala.
Fiore – Risultato?
Di Carlo – Pronto soccorso a Villa Sofia, due costole rotte, terza e quarta, sei giorni di immobilismo totale, altri venti di immobilismo relativo e conseguente terapia.
Fiore – Chi la seguì sino alla guarigione?
Di Carlo – Mia moglie… la maggiore dei cinque figli. Che fortuna essere la primogenita! Così, la mia adorata suocera per tutto il mese di marzo fu di stanza a casa mia. L’evento non mi entusiasmò particolarmente, non per la sua presenza in casa, ma per le ragioni che l’avevano provocata.
Fiore – Di conseguenza le tue abitudini vennero tutte stravolte?
Di Carlo – Così sembrava… ma dopo qualche minuto di riflessione riuscii a trovare la l’antidoto per non stravolgerle. Ripercorrere con la memoria e con la complicità di mia moglie Ina alcuni episodi del quotidiano che ci sono rimasti impressi e ci accompagnano ancora. Il primo input lo dette Ina:
«Qual è la nostra canzone preferita e qual è quella dei nostri quattro figli?»
Risposi: “Vendo Casa” dei Dik Dik.
“Vendo Casa” era la canzone che, durante le vacanze di natale del 1971, ascoltavo davanti al jukebox della Fazenda, il ristorante dello zio di Ina, dove lei era andata a dare una mano alla cassa e dove la vidi per la prima volta. Era, ma lo è ancora, bellissima, vestita con un completino a piccoli scacchi grigi e neri, pantaloni alla zuava, collant nero e due occhi di un verde mozzafiato. Era giovanissima, quasi una bambina, quindici anni: ma ne dimostrava un po’ di più. Quella canzone ci accompagnò per tutto il periodo del corteggiamento: io la usavo come scusa per giustificare la mia presenza costante nei locali della Fazenda. Ero convinto che nessuno si accorgesse del vero motivo per cui stavo tutto il giorno a bighellonare davanti al jukebox. Mi sbagliavo. Ma questa è un’altra storia…
Fiore – Altro ricordo?
Di Carlo – Sì, la nostra memoria che all’unisono grida: “Alba Chiara” di Vasco Rossi.
Fiore – Perché questa rimembranza?
Di Carlo – Per spiegarla devo tornare indietro nel tempo… al 21 agosto del 1989.
A quell’epoca Serena, nostra figlia maggiore, aveva quasi quindici anni ed il più piccolo, Giuseppe, nove e un altro po’.
Tra loro c’erano Clarissa, dodici anni, e Calogero undici.
Fummo veramente bravi, in poco più di cinque anni quattro figli!
Eravamo in vacanza a Sciacca, ospiti dei miei suoceri che avevano aperto un bar-ristorante sulla spiaggia di San Giorgio.
Ina, già da allora grande esperta di cucina, aiutava il padre e la madre nella gestione del locale, io facevo il cameriere… non sempre all’altezza.
Il picco della clientela si aveva la domenica, quando si presentavano in ristorante le più inimmaginabili famiglie dell’entroterra siciliano con il loro carico di abitudini paesane… il noleggio di tavoli e sedie per mangiare comodamente quanto si portavano da casa, caffè compreso in thermos.
Domeniche e festivi erano una continua tragedia… ci vollero parecchie incazzatine di mio suocero per far capire loro come ci si doveva comportare.
Il lunedì, invece, era un giorno di quasi assoluto riposo… dall’imbrunire si trasformava in deserto.
Fiore – Invece quel lunedì del 21 agosto 1989…
Di Carlo – … poco prima delle dieci di sera, arrivarono quattro giovani ventenni, vestiti in modo strano, ma con modi educati e visi sciupati.
Uno dei quattro si rivolse a me che ero l’unico in sala e che finalmente mi stavo fumando in santa pace una sigaretta.
«Scusami, sai se qui si può cenare?»
«Certo che si può. Un attimo e vado a prendere il libretto delle comande.»
«Ah, allora tu sei della ditta.»
«Si, ora torno.»
Mi diressi verso la cucina dove trovai padre, madre e figlia intenti a chiacchierare sul sesso degli angeli.
«Ci sono quattro persone che vogliono cenare. Cosa rispondo?»
Ina: «Se vogliono mangiare a base di pesce sì, diversamente si cerchino un altro posto, i paesani si “mangiuru tutta la carne c’aviamu e si spurparu puru l’ossa”.»
Ritornai in sala e mi rivolsi al giovane che prima mi aveva chiesto se e cosa si poteva mangiare, l’unico magrissimo con capelli lunghi e neri.
«Possiamo preparare piatti a base di pesce. Se per voi va bene apparecchio un tavolo, diversamente non possiamo servirvi.»
«Pesce? È quello che cercavamo.»
A quel punto non potevo esimermi dal fare quello che normalmente facevo durante le mie ferie da bancario a Sciacca… il cameriere.
Preparai il tavolo, li feci accomodare, spiego quali erano i piatti che avrebbero potuto preparare in cucina e aspettai l’ordine.
Lo smilzo mi disse: «Porta tutto quello che avete di pesce e metti in freezer un bel po’ di bottiglie di vino bianco. Siamo stanchi e vogliamo recuperare energie e serenità.»
Fiore – E tu?
Di Carlo – Tornai in cucina e riferii. Mia moglie mi guardava perplessa, forse non aveva capito bene la comanda, o forse l’aveva capito meglio di me, e mi disse: «Ora li fazzu abbuffari.»
Dopo pochi minuti portai al tavolo gli antipasti, a seguire una bottiglia di Settesoli, ben fredda. Li scrutai, stavano mangiando e bevendo con gusto, ma stranamente non mangiavano pane! Prima di finire gli antipasti mi ordinarono altro vino. Dopo poco più di dieci minuti suonò il campanello della cucina. Andai a prendere i primi, spaghetti ai ricci, e li servii al tavolo. Erano gli unici clienti e questo me li faceva vedere in modo diverso, tanto da servirli con la massima attenzione. Sembrava di essere in un ristorante a cinque stelle. Mi convincevo sempre più di essere un perfetto cameriere!
Fiore – Come secondo cosa mangiarono?
Di Carlo – Come secondo servii saraghi tanuti, che avevo pescato in mattinata con mio figlio Calogero, accoppiati ad insalata saccense.
La seconda bottiglia di Settesoli era ormai vuota, ne portai un’altra. Avevo già capito che il vino per loro era un complemento del cibo. Durante il servizio non mi rivolsero parola, erano troppo intenti a mangiare e bere ed io lo capivo perché la stessa cosa succedeva a me a casa. O mangio o parlo, insieme non si può e non si deve. Era ora del dolce, che noi non avevamo, né tantomeno avevano intenzione di chiedere.
Io non l’avevo capito e come uno babbeo dissi: «Purtroppo il dolce ed il gelato sono finiti. Non possiamo offrirvi il dessert, mi spiace.»
Il magrissimo mi guardò tranquillo e sereno e mi disse: «Non importa, stasera abbiamo mangiato da re, non ce l’aspettavamo. Vorremmo conoscere lo chef per fargli i nostri complimenti.»
Nel frattempo era arrivata mia moglie che, sentendolo parlare, mi disse che secondo lei erano o romagnoli o lombardi.
Risposi: «Lo chef è accanto a me ed è mia moglie.»
Si alzò, a seguire anche gli altri si alzarono, e disse: «Solo voi siciliani sapete cucinare meglio di noi romagnoli. Biondina, dovresti seguire il tuo istinto, sei una chef nata.»
A quel punto la curiosità si impadronì di me e di mia moglie: «Ma voi chi siete e cosa ci fate qua?»
«Ve lo dico ma non dovete farne parola con nessuno.»
«Che è… segreto di stato?»
«No, è una birichinata di cui il nostro capo non deve venirne a conoscenza, per lui a quest’ora dovremmo essere a letto.»
«Insomma, si può sapere chi siete e chi è il vostro capo?»
«Mi chiamo Gaetano e sono il tecnico delle luci del concerto che dopodomani si terrà a Partinico, gli altri tre sono i tecnici del suono. Il capo è Vasco Rossi.»
Io e Ina, increduli, ci guardammo negli occhi.
Vasco Rossi!!!
Non ne sapevamo nulla, indaffarati com’eravamo a gestire il bar-ristorante anche se questo non ci esimeva dalla voglia di essere presenti al concerto.
Fiore – Scommetto che Vasco era uno dei nostri cantanti preferiti?
Di Carlo – Sì, ma ascolta il seguito…
«Gaetano, è una notizia fantastica. Dove si svolge il concerto? Dove si comprano i biglietti? A che ora comincia?»
«Quante domande di fila! Calma ora vi spiego tutto.»
Mentre loro sistemavano tavolo e sedie per farci sedere, io andavo a prendere una bottiglia di coca-cola, una di whisky ed un secchiello di ghiaccio.
Ero tutto eccitato, mi muovevo freneticamente, mentre Ina sembrava imbambolata.
Chiusi il portone di accesso e mi sedetti con la speranza che qualche bicchiere di whisky e coca li mettesse di buon umore in modo da aiutarci a trovare i biglietti per il concerto.
Gaetano: «Ragazzi siete veramente gentili, ho sempre saputo che i siciliani hanno un grande cuore e stasera voi me ne avete dato prova. Non preoccupatevi dei biglietti, ne ho due in macchina e ve li offro. Le altre indicazioni le trovate sul retro del biglietto.»
«Veramente, intervenni, con due biglietti non ce la facciamo. Abbiamo quattro figli che sono fans sfegatati di Vasco.»
«Sorbole. Ma quanti anni avete e quanti ne hanno i ragazzi?»
«Io trentasei, Mimmo quaranta e i ragazzi vanno dai dodici ai diciassette» risponde Ina, piegando al bisogno la nostra vera età.
«È un problema, non li ho tutti ‘sti biglietti. Però una cosa la posso fare a condizione che siate presenti all’ingresso dello stadio alle nove in punto. Vengo a prendervi e lo spettacolo lo vedrete dal palco delle luci insieme a me. È una splendida posizione.»
Non ce la facevo a stare zitto, ero troppo esaltato: «Visto che gli altri devono stare sul palco per il suono, non potremmo stare lì con loro?»
«Mimmo, tu non sei cameriere di professione, vero?» mi domandò Gaetano con tono serio.
«Sì, sono bancario, ma durante le ferie aiuto i miei suoceri, per quel poco che so fare.»
«Senti, se io venissi in banca e ti chiedessi un prestito senza garanzie, tu cosa faresti? Me lo negheresti… e faresti anche bene. Tu non rischieresti il tuo lavoro per un mio capriccio, vero?»
«Si.»
«E allora perché mi chiedi di rischiare il posto di lavoro dei miei amici per un tuo capriccio? I latini dicevano “est modus in rebus” per indicare che in ogni azione ci vuole misura, buon senso, a volte capacità di rinunciare a qualcosa per il bene comune.»
Fiore – Sono sicuro che quella lezione ti è stata molto ma molto salutare.
Di Carlo – Assolutamente sì, tanto è vero che oggi in tempo di pandemia e in presenza di questa benedetta variante Omicron quelle parole oggi suonano così: «Perché per capriccio ve ne andate in giro senza vaccino rischiando di contagiarmi?»
Fiore – Come andò il concerto?
Di Carlo – Benissimo, e per il resto come programmato con Gaetano, con la chicca finale: il saluto a Vasco nel suo camper.
Il tutto grazie a Gaetano, nome di fantasia… purtroppo, e mi spiace tanto, ho dimenticato il suo vero nome.
Fiore – Caro Mimmo, mi piacerebbe far conoscere ai lettori di ScrepMagazine le altre dieci storie-favole… ma e per questioni di spazio e per non bruciare la diffusione della tua fatica letteraria che ti è servita a sconfiggere la noia del lockdown chiudiamo questo nostro incontro citando i titoli e soffermandoci sull’ultimo racconto. Sei d’accordo?
Di Carlo – Assolutamente d’accordo…
Fiore – Vai, Mimmo, con i dieci titoli e le dieci foto che illustrano le storie…
Di Carlo – Sì, grazie…
MIA SORELLA
LA MUSICA DI DIO
L’ONORE DELLA TOGA
MOJITO STAR
SCIMECHINA
GLI OCCHI
MINNI DI VIRGINI
LA ROSA
51 ANNI
IL CANTASTORIE
Fiore – Dai parlaci ora dell’ultimo racconto, Il Cantastorie… ti ascoltiamo in religioso silenzio!
Di Carlo – Dicembre 2017.
Ci sono due categorie di professioni che invidio, i politici e i giornalisti. Entrambe fanno uso della parola scritta o declamata come strumento di lavoro e hanno nell’immediato un uditorio che li ascolta, li critica o li applaude. Insomma il loro prodotto è venduto in diretta simultanea e forma squadre di favorevoli o contrari. Della professione del politico credo di conoscere molte delle sfaccettature più nascoste, di quella del giornalista sono assolutamente all’oscuro. Però ho capito che giornalista e politico sono due delle tante facce del narratore, due aspetti importanti di una missione, quella di far conoscere alla gente quanto la vita sia imprevedibile, eccitante, misteriosa ed al tempo stesso chiara e intrigante, vicina e lontana. La voglia di narrare una storia credo sia commozione gioiosa perché è bello coinvolgere la gente, lettori o ascoltatori che siano, nelle vicende altrui e farli diventare protagonisti.
È un’avventura indescrivibile.
Narrare è cosa diversa dal raccontare.
Il racconto elenca i fatti in ordine cronologico e, quasi sempre, li commenta sulla falsa riga del comune sentire, mentre la narrazione è immedesimarsi nell’anima dei protagonisti, riviverne le emozioni, le pulsioni sentimentali e trasmetterli ai lettori. Negli ultimi anni mi sono cimentato nella narrazione e debbo confessare che mi sono divertito, ho trovato il modo di dare sfogo alla mia fantasia descrivendo quanto la realtà sia più avanti dell’immaginazione. Sembrerà strano, ma la vita ti fa conoscere personaggi e situazioni che solo i grandi narratori riescono a percepire con l’immaginazione e a piegarli al comune sentire. Io non ho la pretesa di essere uno scrittore, onestamente credo di non averne le qualità, piuttosto mi piace narrare, cuntare, si dice meglio in siciliano, quasi un cuntastorie.
Tentare l’approccio con tale avventura mi ha affascinato, intrigato ed eccitato sin da bambino. Avevo appena sette anni quando assistetti per la prima volta in piazza Matrice allo spettacolo di Ciccio Busacca, l’unico cantastorie che osava esibirsi al mio paese.
Arrivava con la sua auto familiare, parcheggiava su un’area libera, saliva sul tetto della macchina per montare scenografia e altoparlante, marca Geloso, poi, a squarcia gola, cominciava a richiamare la gente affinché assistesse allo spettacolo sperando che alla fine lasciasse qualcosa nel “piattino”. Pian piano la piazza si riempiva di genitori che, con la scusa di accompagnare i bambini, erano più attratti dei loro figli. Per mio padre questa cosa era inconcepibile, non era consona al suo ruolo nella società, ma io insistetti tanto, recitando anche un pianto, tanto che alla fine fu costretto ad accontentarmi.
Non mi accompagnò, ma mi affidò alle cure di un suo fedelissimo, Iachinu Buffa, che non avendo titolo per andarci, era scapolo, trovò in me la scusa giusta. Siamo stati la reciproca scusa anche per tanti altri spettacoli!
Appena la platea diventava numerosa, Ciccio saliva sul tetto dell’auto e cominciava lo spettacolo. Con la chitarra, poggiato sul cofano, lo accompagnava Paolu u zoppu. Le melodie non erano composte dal menestrello nostrano, ma erano rielaborazioni di vecchie canzoni popolari su cui aveva innestato nuovi testi rigorosamente in siciliano.
Ricordo come fosse oggi la prima storia che cantò ed illustrò. A Raddusa una ragazza di 16 anni, da poco sposata, venne violentata da un sensale di matrimonio che era anche il padrone di suo marito. La ragazza, in seguito alla violenza, vistasi abbandonata da tutti, marito e familiari compresi, giurò a sé stessa che avrebbe castigato il suo violentatore… uccidendolo. Per mettere in atto la sua vendetta, avvicinò l’uomo nella piazza del paese, mascherata da anziana per non farsi riconoscere, e lo uccise scaricandogli addosso un intero caricatore di pistola.
La scaletta degli spettacoli di Ciccio Busacca era sempre la stessa, intercalava musica e recitazione, la prima anticipava una scena mentre la seconda entrava nei dettagli ma sempre facendo riferimento alla scenografia impostata sul telone dietro le sue spalle.
“A lu quatru nummaru unu” era l’incipit costante delle sue performance, che finivano immancabilmente con “all’urtimu quatru”.
Di “quatru” in “quatru” il racconto diveniva sempre più intrigante, stuzzicava la curiosità dell’uditorio, che rideva quando c’era da ridere, piangeva quando c’era da piangere, gridava quando c’era da incitare, ma sempre sulla massima attenzione.
Dopo l’ultimo “quatru”, Paolo, zoppicando e con il piattino in mano, passava tra la gente per raccogliere le offerte mentre Ciccio smontava il palcoscenico.
Quella volta, invece, gli spettatori stettero in silenzio, spesso piangendo, chi di rabbia, chi di commozione, sino al penultimo quatru.
Io li guardavo e mi mettevo a piangere con loro. All’ultimo quatru, l’espressione in viso dei paesani cominciò a cambiare, la rabbia lentamente si trasformò in determinazione sino ad esplodere in un grido di liberazione quando partirono i primi colpi di pistola. Un lungo e chiassoso applauso fece da cornice all’inchino finale del cantastorie. L’applauso non era per lui, ma per la ragazza! Sebbene fossi ancora un bambino e credessi che quella storia fosse frutto della fantasia, quell’episodio mi rimase impresso nella memoria.
Fu quella la prima volta che scoprii un pezzo di mondo diverso dal mio, scoprii che esistevano le ingiustizie ed anche che ci si poteva ribellare e sognare un mondo migliore. Scoprii anche che in quel mondo migliore ci si poteva arrivare con la fantasia e lì trovare tanti compagni d’avventura. La prima occasione importante in cui mettere a frutto questa inclinazione a viaggiare con la fantasia fu l’esame di ammissione alla prima media. Allora si facevano esami per ogni cambio di grado scolastico.
Non era complicato, c’era da fare un tema (ricordate quelli che cominciavano con “tema” e continuavano con “svolgimento”?), risolvere un problema di matematica e sostenere un colloquio di lingua italiana.
Superai brillantemente gli esami con una notazione di merito sul tema.
Aveva questo titolo: “Descrivi con proprietà di linguaggio il sogno che più ti ha coinvolto”.
Pochi giorni prima avevo letto un racconto del Barone di Münchhausen in cui il protagonista faceva costruire una mongolfiera realizzata interamente con biancheria intima da donna e volò via dalla città, insieme a Sally (era quella di Vasco?). Dopo una notte tempestosa che distrusse la mongolfiera, i due si ritrovarono sulla luna. Non avevo sogni particolari di cui tenere memoria e così decisi di utilizzare come traccia la storiella del Barone. Non sapendo cosa fosse una mongolfiera, mi aggrappai al racconto di un amico di mio nonno Peppino, tale Lino Bicchirotto, che sosteneva di avere scoperto una pianta che poteva crescere sino a due metri in pochi mesi.
Perché solo due metri e perché in pochi mesi?, pensai.
Dai Mimì, metti in moto la fantasia e arriva sulla luna in un giorno.
Mi inventai che la pianta con carezze, con parole dolci sarebbe cresciuta più velocemente. Mentre salivo verso la luna descrivevo come immaginavo fosse la terra, con i suoi colori e con l’azzurro del mare e fantasticavo che la luna avesse le stesse sembianze della terra, però senza abitanti. In due paginette e mezza, direttamente in bella, con l’inchiostro della penna spalmato sui fogli perché ero, lo sono ancora, mancino, riuscii ad architettare una storiella che catturò la benevolenza della commissione di esami, tanto da farmi meritare l’encomio. Il merito dell’encomio lo condivido con Ciccio Busacca a cui devo la scoperta che la fantasia è una grande alleata nello sconfiggere la monotonia.
Fiore – E ora?
Di Carlo – A partire dagli inizi degli anni settanta, Busacca e tanti altri cantastorie siciliani sono stati vittime della televisione. Le notizie della cronaca potevano ormai arrivare nelle case degli italiani nel realismo o nella menzogna dei teleschermi, senza la mediazione poetica di questi cantori di tradizioni e leggende anche millenarie, cantori anche di commozione.
Fiore – Molto vero, caro Mimmo! Di quella commozione che “ci rende eroici, ci regala la tonificante occasione di sentirci migliori in ciò che più ci lacera. Momenti della nostra vita in cui il nostro cuore più vulnerabile ottiene grandezza.”
Di Carlo – E aggiungo… commozione che è capace di dare un significato a tante cose del quotidiano e di trasmetterlo agli altri.
Ed è ciò che ho cercato di fare con i miei racconti, “i racconti di Mimì”!
Vincenzo Fiore
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