Storia di una capinera

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Il verismo è un movimento letterario nato in Italia nella seconda metà dell’Ottocento. Si ispira alla corrente realista ma si distingue per la sua rappresentazione cruda e veritiera della realtà sociale, politica ed economica dell’epoca.
Giovanni Verga è considerato uno dei principali esponenti del verismo italiano. Le sue opere, come “I Malavoglia” e “Mastro-don Gesualdo”, sono caratterizzate dalla descrizione accurata della vita e delle difficoltà delle classi sociali più umili, senza alcuna idealizzazione o romanticismo. Verga si concentra sulle sofferenze, le passioni e le lotte quotidiane dei personaggi, offrendo una visione cruda e spietata della realtà.

La corrente verista ha avuto un impatto duraturo sulla letteratura italiana e ha contribuito a cambiare il modo in cui ci si approccia alla rappresentazione della vita e della società attraverso la letteratura.

Giovanni Verga scriveva con passione,
rapportando la vita al suo contorno
senza veli, senza falsità,
ritraendo la gente con verità.
In ogni pagina palpitava il dolore
e la gioia di chi viveva nel cuore
dell’Italia contadina, dura e reale,
che lui seppe tratteggiare con pennello ideale.
Le sue opere rendono omaggio al vero,
alla forza e alla fragilità degli esseri umani,
e alla bellezza di una scrittura che sa raccontare
le vicende dell’anima senza mai sviare.

Giovanna Verga è un autore di romanzi, novelle e testi teatrali e il suo nome è legato indissolubilmente al movimento del Verismo italiano.Tra le sue opere più conosciute c’è Storia di una capinera .

Scritto durante il soggiorno fiorentino, nell’estate del 1869, Storia di una capinera conobbe un notevole successo di pubblico fin dalla prima pubblicazione, avvenuta nel 1870 sulla rivista «La ricamatrice».La trama è piuttosto semplice: Maria, una novizia destinata per volontà della famiglia a una vita monacale, in seguito allo scoppio di un’epidemia di colera, lascia temporaneamente il convento per trasferirsi con la famiglia in campagna.

In questo scenario Maria scopre sensazioni ed emozioni mai vissute prima, tra le quali la gioia dell’amore, seppur pudicamente vissuta, per Nino, il promesso sposo della sorellastra.La felicità di quei giorni, però, dura poco: la matrigna, resasi conto di quello che sta accadendo, la fa confinare nella sua stanza, dove essa a poco a poco si ammala.

Passata l’epidemia, Maria ritorna al convento, ma ben presto si accorge che nulla potrà essere come prima, quel sentimento puro si trasforma in passione struggente e da qui fino a una totale follia, che la porta a essere rinchiusa in una sorta di cella, dove piano piano si consumerà.

L’intento di Verga è sicuramente quello di proporci una vicenda realmente accaduta, non tanto, come si potrebbe pensare, per compiere una denuncia sociale sulla condizione femminile dell’epoca, ma per descrivere la trasformazione di sentimenti che avviene parallelamente alla vicenda.

L’amore impossibile di Maria viene quindi esasperato e drammatizzato all’eccesso, così come la tensione sentimentale che l’autore ha voluto infondere nella protagonista.E’ possibile proporre un confronto tra la Monaca di Monza manzoniana e Maria, la protagonista del romanzo “Storia di una capinera” di Verga.

Entrambe le donne sono succubi di una società in cui la figura paterna esercita il proprio volere determinando la vita dei figli che non hanno, così, la possibilità scegliere il proprio futuro. Destinate, dunque, ad una vocazione obbligata, le novizie si allontanano dal convento per un periodo prima di prendere i voti.

Gertrude perchè la formazione da monaca consisteva anche nel dover trascorrere un mese presso la casa paterna prima di intraprendere la vita di clausura e Maria, invece, si era trovata costretta a rifugiarsi nella tenuta familiare in campagna sul Monte Ilice dal momento che a Catania era scoppiata un’epidemia di colera.

Maria ama suo padre con tenerezza sebbene arrivi a conoscerlo con confidenza solo quando, all’età di vent’anni, torna presso la casa natia. La ragazza capisce come il “babbo” ami di più la figliastra Giuditta, a cui dona tutto il proprio affetto; ma, nonostante questo, trova conforto nell’avere accanto il suo “vecchio” quando passeggia nel bosco e ama la premura con la quale egli le si rivolge, preoccupandosi di non rimproverarla in modo tale che si possa svagare.

Il padre della monaca di Monza, invece, incarna perfettamente l’immagine del nobile secentesco, padre dispotico che tramanda l’intero patrimonio al figlio primogenito, secondo la regola del maggiorascato, mentre agli altri riserva un destino di clausura. L’uomo sottopone perciò Gertrude ad una pressione psicologica tale da renderla incapace di reagire; le bambole raffiguranti suore e le continue allusioni al futuro in convento segnano l’infanzia della ragazza.

Questi gesti non fanno altro che far leva sui sentimenti infantili: il desiderio di compiacere i propri genitori, l’ossequio che si riserva nei loro confronti, il timore di errare. Anche dopo aver trovato il coraggio di opporsi ad un destino che non accetta, Gertrude è ancora una volta costretta a mettere a tacere i propri sentimenti lasciando che il padre prevarichi infondendole ansia penosa ed incertezza.

Angela Amendola

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