Simone Cristicchi ha ricevuto nel 2013 la cittadinanza onoraria di Girifalco, piccolo comune calabrese situato in provincia di Catanzaro. Nel 2006, visitò la località che ospita un manicomio tra i più grandi d’Italia ed ebbe l’ispirazione per comporre “Ti regalerò una rosa” con cui vinse la 57° edizione del Festival di Sanremo. Per puro caso, al ritorno da una festa in piazza in un paese vicino Girifalco, poche sere fa sono passata davanti alla grande costruzione che ospita il manicomio, e mi ha fatto una certa impressione. Perchè sapere che ancora oggi ci sono persone con patologie gravi psichiatriche rinchiuse lì, mi ha angosciata.
La targa che campeggiava, con tanto di traduzione latina (Sanus egredieris), sulla facciata del monumentale ospedale psichiatrico di Girifalco aperto nel 1881, in provincia di Catanzaro, “Uscirai sano” già dalla sua apertura, voleva essere di augurio. Ma nessuno poteva sapere, al momento in cui entrava nell’imponente struttura, quando e se ne sarebbe mai uscito “sano”. Perché la malattia mentale fa e faceva tanta paura, la si poteva “rinchiudere” dietro ad alte grate e tenere a bada con l’utilizzo di pillole e di elettroshock, ma certo nessuno poteva prevedere quali sviluppi avrebbe avuto.
Se al posto di una falsa speranza come “uscirai sano”, su quella targa fosse stato inciso “non sarai solo”, l’animo di chi vi entrava ne sarebbe stato sicuramente rinfrancato. E i ricoverati, con storie di solitudine alle spalle, avrebbero quantomeno trovato tra quelle mura, per la maggior parte di loro era l’unica casa alla quale aspirare, accoglienza, conforto, e presenza continua.
Tuttavia, l’ospedale psichiatrico godeva di una certa fama per l’applicazione di metodi alternativi. Mentre un’intera ala era destinata ai ricoverati più pericolosi, che non uscivano mai e venivano sottoposti a elettroshock, nella restante parte veniva applicato il metodo sperimentale dell’open door, che consentiva ai ricoverati più tranquilli di mescolarsi con gli abitanti del paese, ritrovandosi al bar, dal barbiere o anche solo vicino al campo sportivo dell’ospedale, come spettatori delle partite di calcetto tra i ragazzini “normali”.
Per cento anni le storie dei ricoverati sono state condivise dai girifalcesi. C’è Lulù che suona le foglie e aspetta che sua madre ritorni per farle ascoltare le sinfonie tristi che ha composto nel manicomio di Girifalco. Lo hanno internato perché soffre di crisi epilettiche ma lui è uno di quelli che possono uscire dalla struttura e andarsene in giro. Il paese del Catanzarese è infatti uno dei primi luoghi in cui è stata sperimentata l’apertura delle porte dell’ospedale psichiatrico: i malati meno gravi, quelli sicuramente non pericolosi, hanno la libertà di interagire con i paesani e così diventano parte della comunità. Tutti conoscono Lulù il pazzo e tutti, tranne lui, sanno che sua madre non tornerà. Lui no, è ignaro del suo destino e non sa che un bambino del suo paese, diventato da grande uno scrittore, ha trasformato il ricordo della sua quotidiana attesa in una storia che resterà per sempre.
Quel bambino si chiama Domenico Dara e della sua Girifalco scrive che «era delimitata a nord dal manicomio e a sud dal cimitero, così che le sue genti si muovevano tutte tra la follia e la morte». Della morte sappiamo tutto e niente, mentre la follia Dara la paragona a un polline «che quando soffiava il vento si spargeva sulle teste ignare delle genti e le inseminava». È proprio per questo che «anche quando il manicomio non ci sarebbe più stato i pollini avrebbero continuato a volteggiare nell’aria per azziccàrsi di tanto in tanto in qualche padiglione auricolare a modificare gli ingranaggi della meccanica umana e celeste».
Lulù il pazzo, è esistito davvero.
Tra diagnosi che anticiparono l’Alzheimer e metodi sperimentali che permettevano ai ricoverati di vivere nel paese.
E tutto il paese si mobilitó anche con maniere forti per difendere la struttura quando, nel 1975, si paventava di chiuderla (come poi avvenne a seguito della legge 180, di Basaglia ). Ed ora le storie dei “matti” rivivono nella ricostruzione documentale
“Uscirai sano”, frutto di un’idea di Barbara Rosanò e Valentina Pellegrino, che ne hanno curato anche la regia, le interviste agli psichiatri Salvatore Inglese e Mario Nicotera hanno messo in luce come la sperimentazione dell’open door e l’insegnamento di alcuni mestieri in cui i ricoverati si rivelarono abilissimi (la sartoria in primo luogo), rendessero l’ospedale di Girifalco degno di menzione nel panorama psichiatrico nazionale.
I malati di mente, a Girifalco, facevano davvero parte della comunità: tutti li chiamavano per nome, li rendevano partecipi delle giornate di festa, stavano al loro gioco quando richiedevano attenzione. Negli annali dell’ospedale è anche riportata l’esperienza della gita a mare voluta dal direttore dell’epoca, e vissuta dai pazienti e dal personale medico come un autentico salto nella normalità.
L’archivio dell’Ospedale, poi, ha rivelato incredibili risvolti di interesse scientifico: Amalia Bruni, neurologa di fama internazionale, nel consultare le cartelle cliniche ormai ingiallite dei ricoverati per approfondire i suoi studi sulle demenze, ha scoperto che in diversi casi, a partire dal 1904, la descrizione dei sintomi dei pazienti era perfettamente in linea con quella dell’Alzheimer, almeno quattro anni prima che la malattia venisse rivelata al mondo.
Alcune delle storie di Girifalco hanno addirittura ispirato il cantante Simone Cristicchi per la sua famosa “Ti regalerò una rosa”. Per molti dei ricoverati, la comparsa di un disturbo mentale faceva seguito alla solitudine, ad un grave stato di povertà in famiglia o a un lutto devastante: per altri, invece, l’evocata “pazzia” era soltanto il mezzo a cui si appellavano i familiari per trovare soluzioni definitive, quali il ricovero, ad un “problema”.
I pazzi della porta accanto
Era il 2007 quando Simone Cristicchi portò in gara, al Festival di Sanremo, un brano che era il risultato di uno studio personale, sui centri di igiene mentale e su ciò che essi hanno lasciato in chi vi ha sostato anche se per un breve periodo.
La storia di Antonio, che è il protagonista del brano, ne è un esempio. La canzone si basa su una lettera, che è stata scritta da un uomo chiuso in manicomio fin da piccolo, solo per l’eccesso di fantasia che aveva e che, gli faceva credere di parlare col diavolo. Vent’anni, questo è il tempo che Antonio ha trascorso nell’istituto, tempo da lui vissuto nell’attesa di Margherita, la donna a cui è destinata la lettera, scritta prima che Antonio si togliesse la vita. Naturalmente la canzone è un pretesto per parlare della condizione in cui hanno vissuto per anni persone con disagi mentali, é una riflessione sul concetto di pazzia. Molto significativa e teatrale fu l’esibizione di Cristicchi a quel Sanremo, una canzone eseguita con un unico elemento coreografico, una sedia sulla quale, nella parte finale, l’artista saliva mimando il gesto di volare, ovvero quello di Antonio che si lancia nel vuoto. Ed ecco, con una semplice canzone i matti hanno visibilità, credibilità e dignità. Antonio diventa il simbolo di tutti coloro i quali hanno perso dignità e voce, e che ritrova, in questo modo, la capacità di affermare il proprio diritto a stare nel mondo, nelle relazioni affettive, nonostante la privazione della libertà.
“Ti regalerò una rosa
Una rosa rossa per dipingere ogni cosa
Una rosa per ogni tua lacrima da consolare
E una rosa per poterti amare
Ti regalerò una rosa
Una rosa bianca come fossi la mia sposa
Una rosa bianca che ti serva per dimenticare
Ogni piccolo doloreMi chiamo Antonio e sono matto
Sono nato nel ’54 e vivo qui da quando ero bambino
Credevo di parlare col demonio
Così mi hanno chiuso quarant’anni dentro a un manicomio
Ti scrivo questa lettera perché non so parlare
Perdona la calligrafia da prima elementare
E mi stupisco se provo ancora un’emozione
Ma la colpa è della mano che non smette di tremare. Io sono come un pianoforte con un tasto rotto
L’accordo dissonante di un’orchestra di ubriachi
E giorno e notte si assomigliano
Nella poca luce che trafigge i vetri opachi
Me la faccio ancora sotto perché ho paura
Per la società dei sani siamo sempre stati spazzatura
Puzza di piscio e segatura
Questa è malattia mentale e non esiste cur, ti regalerò una rosa
Una rosa rossa per dipingere ogni cosa
Una rosa per ogni tua lacrima da consolare
E una rosa per poterti amare
Ti regalerò una rosa
Una rosa bianca come fossi la mia sposa
Una rosa bianca che ti serva per dimenticare
Ogni piccolo doloreI matti sono punti di domanda senza frase
Migliaia di astronavi che non tornano alla base
Sono dei pupazzi stesi ad asciugare al sole
I matti sono apostoli di un Dio che non li vuole
Mi fabbrico la neve col polistirolo
La mia patologia è che son rimasto solo
Ora prendete un telescopio, misurate le distanze
E guardate tra me e voi, chi è più pericoloso?
Dentro ai padiglioni ci amavamo di nascosto
Ritagliando un angolo che fosse solo il nostro
Ricordo i pochi istanti in cui ci sentivamo vivi
Non come le cartelle cliniche stipate negli archivi
Dei miei ricordi sarai l’ultimo a sfumare
Eri come un angelo legato ad un termosifone
Nonostante tutto io ti aspetto ancora
E se chiudo gli occhi sento la tua mano che mi sfiora
Ti regalerò una rosa
Una rosa rossa per dipingere ogni cosa
Una rosa per ogni tua lacrima da consolare
E una rosa per poterti amare
Ti regalerò una rosa
Una rosa bianca come fossi la mia sposa
Una rosa bianca che ti serva per dimenticare
Ogni piccolo dolore
Mi chiamo Antonio e sto sul tetto
Cara Margherita son vent’anni che ti aspetto
I matti siamo noi quando nessuno ci capisce
Quando pure il tuo migliore amico ti tradisce
Ti lascio questa lettera, adesso devo andare
Perdona la calligrafia da prima elementare
E ti stupisci che io provi ancora un’emozione?
Sorprenditi di nuovo perché Antonio sa volare..”.
Ma già decenni prima l’argomento fu trattato nelle canzoni. Nel 1971 Don Backy scriveva un brano, intitolato Sognando Fumo.
Canzone che descriveva quasi in maniera poetica, il tema del disagio psichico. A quei tempi, gli ospedali psichiatrici erano ancora una realtà.
La canzone ricantata poi da Mina, diventerà “Sognando”.
I matti, gli alienati, venivano tenuti lontani dalla collettività. Strutture orribili, con fili spinati all’esterno, con le cinghie di cuoio, le camicie di forza, spesso con carcerieri sadici, cattivi, le botte e l’acqua gelata buttata addosso. C’erano le celle con esalazioni maleodoranti, fetide, e poi quelle più brutte, di isolamento. I guardiani venivano scelti in base alle doti fisiche piuttosto che intellettive e i malati erano per tutti delle cose, non persone. Cose da lavare e vestire, legare e punire con botte. Ma ci fu una una rivoluzione culturale che esplose nel maggio 1978, culminando nell’approvazione della Legge Basaglia che, disponendo la chiusura dei manicomi, segnò una svolta nel mondo dell’assistenza ai pazienti psichiatrici. La follia è una condizione umana. Ed è presente come lo è la ragione. Il problema è che la società, per dirsi civile, dovrebbe accettare tanto la ragione quanto la follia.
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Bravissima,
sempre doc