Paolo Villaggio: una “maschera” chiamata Fantozzi

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Poche volte un attore ha saputo creare un’opera di identificazione immediata com’ è accaduto per Paolo Villaggio con il suo personaggio più riuscito, il “ragionier “ Fantozzi, la cui saga cinematografica gli ha regalato tanti riconoscimenti dalla critica e tanto successo nazional popolare.

La sua rappresentazione volutamente macchiettistica dell’infelice ragioniere, impiegato in una grande azienda , sposato con “la Pina” , moglie devota e paziente, e padre della “bruttina” Mariangela, è talmente potentemente cruda e atroce da suscitare un misto di disagio estremo, rabbia e ilarità impetuosa. Il suo essere sempre così accondiscendente, il suo non sapersi ribellare alle angherie dei colleghi al lavoro, la sua indolenza nell’accettare una condizione esistenziale da ultimo della classe, sono un vestito indossato completamente da Villaggio che pur aveva una personalità forte e totalmente lontana da quella del suo personaggio manifesto.

Alla morte del grande attore molti furono  i registi (tra cui Carlo Verdone) scrittori, giornalisti e produttori che lo  vollero omaggiare leggendo  brani del suo “Il secondo tragico Fantozzi”.

Un bellissimo documentario di Mario Sesti ( già presentato a Venezia) racconta il grande attore genovese attraverso la voce e le testimonianze dei suoi amici e colleghi ( tra cui i famosi personaggi della saga Fantozzi.) Tra le altre voci narranti , quella del maestro Benigni , che narra dell’ Effetto catartico che le pagine dei racconti dell’ingegnere avevano avuto soprattutto su personalità fragili e emotivamente forti, come la poetessa Alda Merini, che aveva sempre raccontato di quanto gli fosse stato d’aiuto il surrealismo fantozziano nei momenti bui trascorsi in manicomio.

Proprio questa demenzialità anticipatrice era stato il marchio di fabbrica di un attore che aveva mostrato della genialità innegabile creando un uomo “fantoccio”, mero ingranaggio di una società- fabbrica, oggetto non meglio identificato di una umanità non umana.

Non ci sono veri sentimenti nella cinematografia fantozziana, solo un forte cinismo che sottolinea le debolezze di esseri umani senz’anima; non c’è grande amore coniugale, non c’è vero affetto filiale o paterno, non c’è amicizia vera e propria; domina una grande freddezza, una non comunicabilità che è specchio dell’industrializzazione e meccanizzazione della borghesia.  I pochi slanci sentimentali provengono dall’eterno amore platonico per la Signorina Silvani, (oggetto di un incomprensibile sogno erotico proibito), il cibo quale esplosione di animalesco piacere, e la passione per il Calcio , che annulla tutto il resto e assume i contorni di una fede quasi religiosa.

Pur rappresentando quelli che sono poi gli stereotipi dell’italiano medio dunque ( donne, cibo e calcio) , Villaggio li aveva però ridicolizzati perché era proprio questo il suo intento: una feroce critica all’impoverimento mentale dell’uomo medio a di scapito di una sensibilizzazione maggiore verso i rapporti umani e soprattutto la prevaricazione del forte sul debole. Alla fine del documentario chiude il racconto la moglie Aura Albites che ricordando la loro storia, accresce l’aspetto malinconico del ricordo che abbiamo di lui ; pur di fronte alla sua grande comicità, quello che resta ancora oggi pensando alla sua morte , è una profonda tristezza: proprio quel contrasto che ci comunicava Fantozzi , la sua maschera e forse il suo alter ego più riuscito.

Sandra Orlando.

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