L’erba ha poco da fare
sfera d’umile verde
per allevare farfalle
e trastullare api.
Muoversi tutto il giorno
a melodie di brezza,
tenere in grembo il sole
ed inchinarsi a tutto.
Infilare rugiada
la notte come perle,
e farsi così bella
da offuscare duchesse.
Quando muore, svanire
in odori divini
come dormienti spezie
e amuleti di pino.
Ed abitando nei granai sovrani
i suoi giorni trascorrere nel sogno.
L’erba ha poco da fare
ed io vorrei essere fieno.
(traduzione di Margherita Guidacci, BUR, 2012)
Questa lirica di Emily Dickinson è una personificazione dell’erba, percepita sia come elemento naturale che come ecosistema collettivo di immagini.
Ogni compito dell’erba è poetico e invidiabile, calmo e delicato; l’intera poesia è ricca di stimoli sensoriali che rimandano a una sensazione di calore e quiete: la natura è sia madre tenera e protettrice che donzella giovane e sognatrice; ogni filo d’erba sembra danzare leggiadro tra i propri compagni in un ritmo armonioso e impossibile da rompere.
Anche la morte viene vista come portatrice di gioia e ricchezze. Persino la notte, tipicamente cupa e associata alla tristezza, riporta alla mente immagini create per scaldare il cuore; sebbene manchi la luce e quindi non ci sia permesso ammirare lo spettacolo dei fili d’erba, siamo comunque in grado di percepirne il profumo e, la mattina seguente, l’amato tappeto verde si inonderà di perle lucenti.
Alla fine del componimento viene espresso un desiderio interno all’inconscio di ogni uomo ovvero quello di voler diventare fieno: spesso nella società moderna l’uomo è sopraffatto dal frenetico ritmo della vita che scorre rimanendone tramortito e perciò corre perdendo la luce, allontanandosi dal colore e dalla musicalità della vita e, ingoiato e imbottigliato nel fumo grigio dei suoi pensieri, non può far altro che crollare.
Arrivare alla consapevolezza di essere solamente dei fili d’erba, renderebbe il continuo tormento dell’uomo molto più sopportabile; sapere di essere nulla in confronto allo spettacolo che fornisce l’intero insieme è un pensiero oltremodo rilassante.
Il semplice, ma per nulla banale, comprendere che non è necessario caricare tutto il peso del mondo sulle proprie spalle, alleggerirebbe le ingarbugliate menti che compongono la società.
Sarebbe stupendo essere erba, essere tutti coordinati l’un l’altro e capaci di offrire uno spettacolo straordinariamente fiabesco e inesprimibile a parole, essere in grado di godere di ogni attimo nella sua interezza, consapevoli di lasciare un segno indimenticabile su questa terra.
Questo insegnamento è stato da poco impartito ai giovani attraverso una serie tv molto in voga di un famoso fumettista di nome ZEROCALCARE che, con la sua opera “Strappare lungo i bordi”, ha espresso con parole e mezzi diversi lo stesso desiderio della Dickinson.
La frase che meglio racchiude il pensiero di ZEROCALCARE è in uno dei primi episodi e recita così: “Ma non ti rendi conto di quant’è bello? Che sei soltanto un filo d’erba in un prato? Non ti senti più leggero?”.
Anche la musica offre tantissimi altri modi per esporre lo stesso concetto: una cupa richiesta di aiuto da parte di un uomo intrappolato, letteralmente, nel suo grigiore è presente nella canzone “Paint it Black” dei Rolling Stones, soprattutto nella strofa “Maybe then, I’ll fade away / And not have to face the facts / It’s not easy facing up / When your whole world is black” che tradotta dall’inglese rappresenta una presa di coscienza della condizione di vita in cui l’uomo è talmente disperato da chiedersi se tutto il suo dolore passerà quando lui stesso riuscirà a svanire, consapevole di non essere in grado di affrontare la vita e tutto è dipinto di nero.
Essendo però un pensiero così ricorrente tra le menti più elevate, possiamo trovare lo stesso concetto espresso da Walt Whitman nella sua raccolta “Leaves of Grass”, soprattutto nella suggestiva poesia “Canto di me stesso”:
Che cos’è l’erba? Mi chiese un bambino portandomene a piene mani;
come potevo rispondergli? Non so meglio di lui che cosa sia.
Suppongo che sia lo stendardo della mia vocazione, fatto col verde tessuto della speranza.
O forse è il fazzoletto del Signore, un ricordo profumato lasciato cadere di proposito,
con la cifra del proprietario in un angolo sicché possiamo vederla e domandarci di
Chi può essere?
O forse l’erba stessa è un bambino, il bimbo generato dalla vegetazione.
O un geroglifico uniforme
che voglia dire, crescendo tanto in ampi spazi che in strette fasce di terra,
fra bianchi e gente di colore, Canachi, Virginiani, Membri del Congresso, gente comune, io do loro la stessa cosa e li accolgo nello stesso modo.
(Traduzione di Igina Tattoni, Newton Compton, 2014)
In questa poesia l’erba non è una certezza come per la Dickinson, ma una intensa novità che genera nel poeta la curiosità di un bambino e il bisogno di scoprire.
Qui il filo d’erba è il fazzoletto da tasca di Dio, un regalo meraviglioso quanto banale, che rappresenta qualcosa di ultraterreno, maestoso e quasi inimmaginabile.
Subito dopo però ritorna l’idea di natura fanciulla, addirittura bambina, che non vede l’ora di crescere e scoprire, espandersi in ogni vicolo del mondo di corsa, veloce ed energetica.
L’uomo non può fermare la sua avanzata, può solo guardarla crescere sotto i propri piedi e lasciarsi andare alla visione unica che gli si porrà davanti.
La natura non fa distinzioni e grazierà ciascuno di noi con il proprio splendore, nessuno escluso; anche la più insulsa e banale parte della nostra terra, ovvero l’erba, trova centinaia di modi per farsi notare.
Giulia Pagano
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