La spiritualità del presbitero e le sue “direttrici sinodali”

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   Lettera ai Presbiteri

Messa Crismale 2021

“Lo Spirito del Signore è sopra di me; per questo mi ha consacrato con l’unzione e mi ha mandato a portare ai poveri il lieto annuncio, a proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista; a rimettere in libertà gli oppressi e proclamare l’anno di grazia del Signore”. (Lc 4,18-19)

Cari fratelli presbiteri,

anche quest’anno, come ogni anno, in tutte le chiese del mondo noi vescovi e voi presbiteri, voi diaconi e voi tutti appartenenti al popolo santo di Dio sentiamo risuonare nella Messa del Crisma la profezia messianica di Isaia, che Gesù dichiara compiuta nella sua persona (Is 61,1ss; Lc 4,18ss).

È una profezia che è anche un appello.

Ripropone e rinnova, evoca e riattualizza una vera e propria investitura, l’investitura messianica.

Gesù la sente rivolta a sé, come “Messia”, come il Cristo, da cui deriva anche la parola crisma, mentre nella narrazione sinottica tutti lo chiamano ancora Gesù, “il figlio di Giuseppe” o il “Figlio di Maria”, aggiungendo che la sua vita è ben nota, al pari dei suoi familiari (Lc 4,22; Mc 6, 3, Mt 13,55-56).

Non comprendono la sua vera realtà, la sua unzione messianica, su cui concordano i vangeli e che nel resto della narrazione viene dimostrata nei fatti.

Non deve succedere oggi per noi, nelle nostre cattedrali, quello che successe allora nella sinagoga di Nazareth: il misconoscimento di questo dono, che è anche un incarico preciso per tutti noi.

Misconoscimento non più nei suoi confronti, ma nei nostri reciproci rapporti, perché, carissimi tutti, fratelli e sorelle, in Gesù che per noi è indubitabilmente il Cristo, riceviamo conferma della stessa investitura messianica tutti noi. Proprio tutti: voi battezzati e noi che tra voi abbiamo il dono e la missione del ministero ordinato (diaconi, presbiteri e vescovi).

Lo sappiamo bene, tradizionalmente, il costitutivo riferimento a Cristo – quello cosiddetto ontologico – viene riferito al sacerdozio ministeriale nella partecipazione al ministero dell’Unto del Signore.

La stessa liturgia ne trae le conseguenze che si applicano alla spiritualità del presbitero, che possiamo trovare riassunta in queste parole del prefazio: “Tu proponi loro come modello il Cristo, perché, donando la vita per te e per i fratelli, si sforzino di conformarsi all’immagine del tuo Figlio, e rendano testimonianza di fedeltà e di amore generoso”.

Tuttavia, la riflessione e soprattutto l’annuncio che scaturisce dalla liturgia non si può, né si deve fermare qui.

Dobbiamo infatti chiederci: dal momento che non solo la spiritualità del presbitero ha la sua fonte nell’Unto del Signore, come possiamo oggi assimilarla e viverla con coerenza, tutti noi, cristiani e cristiane, dunque tutti noi unti e unte nel Cristo, evitando di cadere in mere logiche autocelebrative o, peggio, puramente clericali?

Come possiamo attingere dall’inesauribile, infinita abbondanza dello Spirito che si posa sul Cristo, realizzando, nella misura di ciascuno, la pluriforme manifestazione della sua presenza in noi, senza però ricadere in schemi di sublimazione e separazione del mistero presbiterale rispetto al sacerdozio dei fedeli laici?

Pertanto, nel contesto importante cui ho fatto riferimento e senza escludere nessuno, permettetemi il tentativo non di esplorare una definizione completa della “spiritualità presbiterale”, ma semplicemente di individuare alcuni elementi sparsi, alcune tracce, che mi sembrano toccare delle questioni sensibili nel tempo che stiamo vivendo.

La vita nello Spirito è aperta a tutti i battezzati

Propongo due esempi, per focalizzare meglio la questione. Proviamo a rileggere la frase del prefazio della Messa crismale che ho appena citato e poi riprendiamo la definizione di spiritualità presbiterale che ci viene dal Direttorio sul ministero dei presbiteri.

Parlando proprio dei ministri ordinati, dunque, il prefazio ricorda che il Padre propone loro come modello il Cristo, in modo che, donando la vita per Dio e per i fratelli, si sforzino di conformarsi all’immagine del Figlio suo e rendano testimonianza di fedeltà e di amore generoso. Domandiamoci: ma questo programma di vita spirituale non appartiene in tutto anche ai fedeli laici?

Cristo è infatti modello per ogni battezzato e tutti i fedeli siamo chiamati a donare la vita per Dio e per il prossimo.

Allo stesso modo la conformazione a Cristo, nella misura del dono e del ministero di ciascuno, è il fine di ogni esistenza cristiana, così come appartiene a tutti la missione di testimoniare la fedeltà e l’amore generoso.

Non c’è quindi il rischio che i presbiteri sentano di appropriarsi in modo più specifico di doni e vocazioni che appartengono a tutti e a tutte?

Le espressioni tratte dal prefazio, in effetti, si riferiscono alla vita nello Spirito a cui è chiamato l’uomo nuovo in Cristo, rinato attraverso il Battesimo.

Ogni spiritualità concretizza, nel modo che le è proprio, la nuova creazione operata da Cristo Risorto.

E infatti, se andiamo a rileggere il prefazio della Messa crismale nella sua interezza, dobbiamo osservare che il brano in questione, effettivamente riferibile a tutti i fedeli, riceve una propria specificazione dal contesto in cui è posto e soprattutto dalle parole che precedono: alcuni tra i fratelli che appartengono all’unico popolo dei redenti, al quale Cristo comunica il proprio sacerdozio regale, ricevono infatti l’imposizione delle mani e sono resi partecipi del suo ministero di salvezza, così definito: “Tu vuoi che nel suo nome rinnovino il sacrificio redentore, preparino ai tuoi figli la mensa pasquale, e, servi premurosi del tuo popolo, lo nutrano con la tua parola e lo santifichino con i sacramenti”.

È a partire da questa specificazione del ministero ordinato, che il prefazio ci fa leggere il modo concreto in cui noi ministri ordinati siamo chiamati a seguire il modello di Cristo, a conformarci a Lui e donare la nostra vita.

Se tutti in quanto cristiani siamo chiamati a imitare Cristo, noi ministri ordinati viviamo questa vocazione secondo un peculiare servizio al popolo di Dio che è segnato dal ministero della parola e della grazia.

Il presbitero, e in genere il ministro ordinato, non è imitatore di Cristo “più” degli altri fedeli, ma ognuno lo è nella misura della propria corrispondenza al ministero e alla grazia ricevuti. E tuttavia si deve riconoscere che, in forza della propria conformazione a Cristo capo e pastore, il presbitero è costitutivamente rivestito della peculiare responsabilità di mostrare ai tutti gli altri fedeli come imitare Cristo, realizzando l’invito di San Paolo a Corinzi: “Diventate miei imitatori, come io lo sono di Cristo” (1Cor 11,1).

Ovviamente Paolo sa che la fonte e l’archetipo da imitare non è lui stesso: lui si propone come modello da imitare, nella retta coscienza che la sua vita offre ai suoi fratelli e alle sue sorelle una sincera e fedele visibilità del modello originario che è Cristo.

Stiamo dunque attenti a non riservare l’imitazione del modello di Cristo alla sola spiritualità presbiterale. Ma stiamo anche attenti a non sminuire ciò che Cristo attende specificamente da noi, per corrispondere al suo amore e per mostrare la sua presenza viva tra gli uomini: la nostra “testimonianza di fedeltà e di amore generoso”. «Le Sacerdoce, c’est l’amour du cœur de Jésus», il sacerdozio è l’amore del cuore di Gesù: come è viva, potente e carica di spirito questa semplicissima frase del Santo Curato d’Ars!

In parallelo al testo del prefazio, vorrei riproporre anche questo passaggio del Direttorio per il ministero e la vita dei presbiteri (2013). Il capitolo II, dedicato appunto alla “spiritualità sacerdotale”, si apre con questo proemio: “La spiritualità del sacerdote consiste principalmente nel profondo rapporto di amicizia con Cristo, poiché egli è chiamato ad ‘andare da Lui’ (Mc 3,13). In questo senso, nella vita del sacerdote Gesù avrà sempre la preminenza su tutto. Ogni sacerdote agisce in un contesto storico particolare, con le sue varie sfide ed esigenze. Proprio per questo, la garanzia di fecondità del ministero radica in una profonda vita interiore. Se il sacerdote non conta sul primato della grazia, non potrà rispondere alle sfide dei tempi, e ogni piano pastorale, per quanto elaborato possa essere, sarebbe destinato al fallimento”.

Il riferimento che permette di interpretare correttamente questa definizione, a mio giudizio, è la citazione di Mc 3,13, in cui l’evangelista attesta che coloro che “andarono da lui” sul monte erano solo le persone che Gesù aveva voluto chiamare.

Tra di essi poi Egli “ne costituì dodici” (Mc 3,14). Non mi addentro nell’ermeneutica del testo, ma ovviamente sarebbe forzato riproiettare nelle intenzioni dell’evangelista la stretta identificazione di questo gruppo “scelto” da Gesù con il primo segnale della volontà di istituire dei presbiteri. Sta di fatto comunque che in quel momento Gesù non si sta relazionando con tutte le folle, ma con persone scelte in vista di una specifica identità apostolica da conferire ad alcune di esse.

C’è quindi, nella scelta di Gesù, un orientamento ministeriale specifico dato a quelle persone chiamate ad “andare con lui”.

Tornando al brano del Direttorio, dunque, in esso si lascia intendere un modo specifico di andare con Gesù che appartiene al presbitero in risposta ad una peculiare chiamata. Non soltanto il presbitero, ovviamente, è chiamato ad “andare con Gesù”, perché tutti sono chiamati alla sua sequela, ma il suo andare è orientato a un ministero che dovrà identificarlo.

E tale ministero è in effetti – come spiegava J. Ratzinger commentando Presbyterorum Ordinis – «una partecipazione al lavoro pastorale e all’amore pastorale di Gesù Cristo», e di conseguenza «i sacerdoti che concepiscono così il loro agire “troveranno il vincolo della perfezione sacerdotale, che realizzerà l’unità nella loro vita e attività, nell’esercizio stesso dell’attività pastorale”» (Opera omnia, 7/2, 357).

Se non si tiene conto di questo ministero specifico che è affidato al ministro ordinato, non si può cogliere in che modo tutto il contenuto del brano del Direttorio appena citato possa distinguere la sua identità da quella di ogni battezzato.

Come presbiteri, diaconi e vescovi, possiamo forse vantare un “profondo rapporto di amicizia con Cristo” tale da essere privilegiato rispetto agli altri fedeli?

Se nella nostra vita sacerdotale Gesù deve avere “sempre la preminenza su tutto”, forse questa condizione non può essere sperimentata anche dai laici?

Di fatto, molti fedeli laici e religiosi ci sono testimoni esemplari di una vita ordinaria, condotta nella normalità del loro ministero quotidiano, in cui tutto è fatto per Cristo e Lui ha la preminenza, anzi la totalità, nel cuore, nella mente, nelle opere. Che la “garanzia di fecondità” del proprio ministero sia radicata “in una profonda vita interiore” non è anche questo un principio di spiritualità che vale per tutti i battezzati? Non siamo tutti chiamati a contare “sul primato della Grazia”?

Questo vale per il ministero ordinato, certo, ma anche per la vocazione al matrimonio e ogni vocazione cristiana.

Chiediamo ai nostri fratelli e sorelle che vivono cristianamente il matrimonio se non è vero che il primato della Grazia è necessario per “rispondere alle sfide dei tempi” (e anche, più in concreto, alle sfide della famiglia, e del lavoro, e delle relazioni, e della società…)!

Nessuno, nemmeno il ministro ordinato, sperimenta il primato della Grazia con diritti di esclusiva!

E dunque, come lo stesso Direttorio sembra suggerirci, la nostra spiritualità di ministri ordinati non nasce per sublimazione del rapporto con Cristo a cui sono chiamati tutti i fedeli, ma semmai parte dalla condivisione della comune vocazione battesimale e si specifica nella misura della fedeltà alla nostra particolare vocazione e ai doni di Grazia che le sono connessi.

Sembra un’annotazione tutto sommato ovvia, ma l’esperienza ci fa prendere atto che non è facile superare l’idea che la spiritualità sia una dimensione dell’essere cristiano in cui il ministro ordinato parte in vantaggio e il fedele laico resta impantanato nelle retrovie.

Piuttosto, ministri ordinati e fedeli laici partono insieme dalla condivisione dell’essenza battesimale e, prima ancora, dell’esistenza umana.

La spiritualità presbiterale non si realizza “nonostante” la compartecipazione alla fragilità umana e alla comune appartenenza all’unico popolo di Dio, ma proprio grazie ad essa.

John Henry Newman osservava che se Dio avesse mandato degli angeli a svolgere il ministero sacerdotale, essi non avrebbero potuto condividere la nostra condizione, non avrebbero potuto “sympathize” – “con-patire” insieme a noi, non avrebbero potuto farci da guida e condurci dal nostro essere vecchio a una nuova vita, come lo possono coloro che provengono di mezzo a noi, avendo sperimentato le stesse difficoltà, esperienze e tentazioni (Discourses to mixed congregations, 3, 1849).

A partire da questi presupposti, mi dirigo verso alcune mie proposte di riflessione, che espongo in modo volutamente frammentario, senza una pretesa di organicità.

Vorrei solo condividere alcune singole concentrazioni tematiche, su questioni che si muovono all’interno della concretezza e dell’ampiezza della spiritualità presbiterale.

Dall’autoreferenzialità alla sinodalità

Se nel nostro inconscio rimane depositata l’idea che la relazione del ministro ordinato con Cristo sia spiritualmente più elevata degli altri battezzati, il rischio che ne deriva non è solo quello di una certa presunzione, ma anche l’illusione che ogni nostra azione in ambito ministeriale sia garantita da un surplus di discernimento, di sapienza, persino di competenze.

Con il pericolo di gravi cadute.

Lo schema di pensiero che vede nel ministro ordinato un grado più elevato di spiritualità alimenta anche la convinzione che il ministro ordinato sia abilitato a un esercizio del proprio ministero rivolto ad alimentare la vita cristiana dei fedeli e delle comunità a lui affidati, ma non favorisce all’inverso la ricerca di confronti reciproci, la propensione a mettersi in questione, la disponibilità a ricevere spiritualmente dai doni degli altri battezzati.

Consideriamo per esempio alcuni momenti più rappresentativi del ministero presbiterale: la guida delle coscienze, il magistero della Parola, la conduzione della comunità.

Si tratta di ambiti che possono essere facilmente interpretati secondo lo schema del serbatoio e del terreno: il terreno riceve l’acqua dal serbatoio, ma il serbatoio non ha bisogno del terreno per riempirsi; si alimenta direttamente da fonti superiori.

In tal modo il presbitero avrebbe il compito di svuotarsi a favore della comunità, salvo poi la necessità di attingere spiritualmente le proprie risorse nell’intimità con Cristo, quanto meno in un interscambio di vita con il proprio presbiterio.

E molte volte la nostra formazione ha posto in luce proprio la necessità spirituale che il presbitero viva in modo positivo e fecondo le fondamentali relazioni con il proprio vescovo e il proprio presbiterio. Qualcuno giustamente si chiede e ci chiede: «Accettiamo il lavoro trasformativo su di noi che viene grazie alla relazione attiva e concreta con gli altri, e anzitutto con gli altri presbiteri? Tertulliano scriveva che unus christianus, nullus christianus, ovvero, che il cristiano esiste sempre in un corpo, in un insieme, in una relazione, non da solo, quanto più questo vale per il presbitero che è a servizio della comunione del corpo ecclesiale e che fa del presbitero, di ogni presbitero una delle membra che formano il corpo. Quel corpo che è anzitutto il presbiterio, nella comunione tra presbiteri tra di loro e tra presbiteri e vescovo».

(E. Manicardi, “La fraternità evangelica tra presbiteri”, 11 dicembre 2018).

Davanti a questa ovvia e necessaria esigenza, pur non sempre facile da vivere con piena serenità e coerenza, chiediamoci: è sufficiente delineare il presbiterio come contesto vitale del presbitero?

Non dobbiamo mettere la stessa coscienza nel riconoscere che il presbiterio non esiste come perimetro chiuso e autosufficiente, ma è una realtà che sussiste nel più ampio contesto ecclesiale?

Per tale ragione, il presbitero vive e respira solo in un interscambio con il presbiterio, o piuttosto con la Chiesa nel suo insieme, fatta di realtà particolare e universale, di presbiterio e di comunità, di confratelli e di fratelli e sorelle, di localismo e di mondialità?

In tale respiro universale di Chiesa, il presbitero ha tantissimo da ricevere anche tramite i fedeli laici, e non è responsabile solo di dare a senso unico.

La pretesa, o anche la generosità, di dover soltanto “dare” ai fedeli laici, porta inevitabilmente al grave rischio dell’autoreferenzialità: quella condizione di chi è convinto che la propria “verità”, il proprio discernimento, la propria parola siano garantiti dal proprio stato ministeriale e che attendano da parte del fedele laico solo una leale disponibilità ricettiva.

È vero che nella guida delle coscienze, nell’insegnamento della Parola, nella conduzione delle comunità noi pastori alla fine ci dobbiamo assumere le nostre responsabilità, invocando il sostegno della Grazia, senza rinunce o deleghe.

Ma non possiamo pensare che il compito dei laici sia già sufficientemente valorizzato quando ne ascoltiamo i “consigli” (magari solo nella forma istituzionalizzata dei consigli pastorali ed economici).

L’ascolto, il confronto, l’attenzione alla verità e al dono che vengono dall’altro, costituiscono una disposizione complessiva dell’essere, che coinvolge pienamente il presbitero anche nell’adempimento delle proprie specifiche responsabilità ministeriali.

Abbiamo molto da apprendere e da ricevere, da tutti i nostri fratelli e sorelle laici, e non solo da offrire. Abbiamo molto spazio per metterci in discussione, nella nostra coscienza e nelle nostre scelte, grazie al contributo che ci può venire da ogni dove.

Questa apertura cosciente e fiduciosa è la condizione di una sinodalità spontanea e serena.

Lo stesso atteggiamento di grata accoglienza, che qui considero in relazione alle nostre appartenenze ecclesiali, lo vorrei ovviamente estendere all’intera complessità delle nostre relazioni umane.

Un atteggiamento positivo e aperto, verso il mondo e verso l’altro in tutte le sue sfaccettature, è necessariamente umile.

Umiltà significa anche avere la coscienza che dall’altro abbiamo sempre da imparare e da ricevere, chiunque esso sia. L’umile è anche curioso, pronto a conoscere, versatile, estroverso; chi si sente invece completo in se stesso è forzatamente spento, monocromatico, chiuso.

Un presbitero con atteggiamento autoreferenziale sarà sempre spiritualmente più povero, culturalmente più scialbo, relazionalmente più apatico.

E quindi meno fedele alla propria identità e al proprio ministero.

Le coordinate di una spiritualità sinodale

«Il sentimento profondo della comunione si ha solamente quando, personalmente, prendo coscienza del “noi” che sono, sono stato e sarò» (Papa Francesco, Discorso preparato per la liturgia penitenziale con il Clero della Diocesi di Roma, 27.2.2020).

Ogni spiritualità vive di comunione, in un permanente interscambio di relazioni e di doni, in un respiro costante di accoglienza e di offerta.

La spiritualità di chi pensa se stesso solo in dovere di dare diviene presto asfittica, stantia. Una spiritualità di autosufficienza, costruita senza disponibilità a imparare e ricevere in un confronto aperto con gli altri, non è generativa, perché, quando anche riesce a proporsi come autorevole, finisce per stabilire con gli altri solo un rapporto di dominio spirituale.

Questa legge vale anche per il presbitero e per ogni ministro ordinato!

Egli impara e riceve molto dagli stessi fedeli, e non solamente in termini di collaborazione pratica o pastorale, ma proprio in termini di spiritualità, di testimonianza, di riflessione, di esperienza, di comunione.

E mentre sperimenta con gratitudine quella Parola e quella Grazia che lo raggiungono anche attraverso i fratelli e le sorelle di ogni giorno, il suo spirito può respirare quell’aria sempre nuova che mantiene in vita i propri carismi, la propria carica ministeriale, la propria generatività.

Il principio della sinodalità, come categoria chiave da accogliere anche nell’ambito spirituale, consiste in fondo proprio in questa disponibilità a camminare insieme nella vita secondo lo Spirito, il quale non discende e vivifica il presbitero solo per via diretta e verticale, ma si può servire di ogni vento che soffia anche dal piano terra, di ogni respiro che promana anche in orizzontale dalla voce e dalla vita di chi sta accanto.

In certa misura credo che dobbiamo ancora uscire da un certo schema mentale che vede la spiritualità strutturata solo sull’asse verticale del rapporto intimistico con Dio.

Nel caso della spiritualità del presbitero, questo schema è consolidato dal riferimento alla dimensione intrinsecamente sacerdotale della sua esistenza.

Se ci si concentra solo sul fatto che, come sacerdote, il ministro si pone da intermediario tra Dio e gli uomini nel servizio della parola, del culto e della guida pastorale, ne deriva anche l’idea che, come fedele, egli sia spiritualmente e funzionalmente sollevato rispetto all’orizzonte degli altri fedeli e di conseguenza la sua crescita spirituale non possa trovare alimento e sostegno da parte di coloro che si troverebbero più “in basso” nell’ordine della mediazione dei doni divini.

L’equivoco proviene dalla mera confusione tra dimensione sacerdotale e vita spirituale del presbitero.

Occorre invece tener presente che, pur mantenendo il ruolo sacerdotale, il presbitero, come del resto ogni ministro ordinato, con la specificità che lo identifica, resta un fedele, un membro del popolo di Dio. È dalla realtà misterica e “comunionale” del popolo di Dio che ogni membro del popolo di Dio attinge ogni alimento di carità, di grazia, di verità, di discernimento, che lo Spirito del Risorto effonde nell’unica Chiesa, attraverso i doni ministeriali e carismatici che la vivificano. In tal senso, la nostra spiritualità di presbiteri deve sempre mantenere un vivo, fiducioso, grato, fecondo legame orizzontale.

Il primo nucleo di queste relazioni orizzontali è dato proprio dal presbiterio unito intorno al proprio vescovo, nel quale il singolo presbitero scopre ogni giorno di non essere un “singolo”, ma una comunione. «Non si tratta di monacalizzare il presbiterato con forme di vita comunitaria mutuate dal monachesimo – precisa Enzo Bianchi – ma non si può tacere che un presbiterato privato della “comunionalità” è una ferita inferta alla vocazione così come delineata nel Nuovo Testamento: presbiteri lo si è “insieme”».

Il presbiterio non chiude tuttavia l’immenso spazio orizzontale di relazioni concentriche, spazio dell’azione dello Spirito di Cristo, che si estende all’intera realtà misterica della Chiesa e anche alla variegata complessità della realtà umana e sociale.

All’interno di tutte queste relazioni, il presbitero si inserisce nel respiro comune di accoglienza e di dono, da cui attingere e a cui offrire se stesso, senza chiusure pregiudiziali e senza pretese autoreferenziali.

La dimensione orizzontale non è quindi chiusa dentro un confine rigido, ma attraversa tutte le possibili relazioni della fraternità umana: « Per sua stessa dinamica, l’amore esige una progressiva apertura, maggiore capacità di accogliere gli altri, in un’avventura mai finita che fa convergere tutte le periferie verso un pieno senso di reciproca appartenenza. Gesù ci ha detto: “Voi siete tutti fratelli” (Mt 23,8)» (Francesco, Lett. enc. Fratelli tutti, 95).

È la terza direttrice di una spiritualità sinodale: la trasversalità.

Il presbitero ha costitutivamente la missione di entrare in relazione e di raggiungere tutti, attraversando tutte le dimensioni e i contesti della socialità umana, senza preclusioni e pregiudiziali. Anche oltre i confini visibili della Chiesa, si estende non solo la missione di rendere presente Cristo Risorto, ma anche la possibilità di accogliere i frutti di bene e di sapienza presenti in ogni realtà creata e in ogni esperienza umana, che non di rado sono segno dell’azione misteriosa dello Spirito.

Come si nota, le tre direttrici di una spiritualità sinodale sbloccano un certo dualismo in cui spesso viene imprigionata la nozione di spiritualità. Mi riferisco alla struttura bipartita che prevede poi l’esigenza di “coniugare” l’esperienza dello Spirito e l’attività terrena, la contemplazione e l’azione, Marta e Maria, l’intimità e l’estroversione, l’ascolto e la predicazione, la preghiera e la missione, la spiritualità e la pastorale.

Le tre direttrici della spiritualità sinodale attraversano invece la classica bipartizione -integrazione tra mondo dello spirito e mondo esteriore, permettendo di non irrigidirla in una mera dicotomia.

Ovviamente, metterci in gioco in un mondo aperto, in cui le nostre identità, sempre da valorizzare come ricchezza dello Spirito, non sono tuttavia protette da steccati e da settori, è un’operazione che costa spesso una rielaborazione dei nostri più comodi modelli culturali. Forse per un presbitero potrebbe apparire più rassicurante un orizzonte semplicemente distinto in chiesa e mondo, o cristianità e laicità.

Pensare che c’è un mondo e un orizzonte di laicità, che non è per noi solo territorio “esterno” di uscita missionaria, ma un contesto che ci coinvolge e dal quale noi stessi possiamo ricevere in termini di crescita spirituale, può sembrare a volte una sorta di rivoluzione copernicana.

In realtà si tratta solo di tematizzare un’esperienza pratica in cui siamo coinvolti ogni giorno, magari senza prenderne coscienza riflessa.

Si potrebbe obiettare un possibile rischio, insito in un modello aperto e trasversale di esperienza spirituale: quello di dissolvere la spiritualità in un concetto fluido, privo di punti di riferimenti certi, o addirittura svincolata dalla fonte di ogni spiritualità che è lo Spirito di Cristo Risorto. E invece è proprio questo il punto.

Aprirsi al mondo non significa certo allontanarsi da Cristo e dal suo Spirito. Anzi, proprio il riferimento originario alla Pasqua di Cristo è il perno da cui promanano le direttrici della spiritualità sinodale, lungo le quali si irradia il dono di vita nuova nello Spirito che Cristo offre all’umanità intera.

E i doni di bene e di saggezza sparsi nell’umanità sono riconoscibili e “vaporizzabili” proprio all’interno dell’offerta di senso e di pienezza che scaturisce dal Risorto. In questa dinamica, trova nuova luce la stessa identità di mediatore che identifica il presbitero: non tanto come intermediario tra due mondi collocati su dimensioni separate, ma come segno e presenza di Colui che con la sua croce e la sua risurrezione dona vita nuova, senso e unità a ogni esperienza umana aperta all’azione del suo Spirito.

Le tre dimensioni della spiritualità sinodale, in fondo, non tracciano una novità, ma traducono l’altezza, la larghezza e la profondità del cuore di Cristo.

Appoggiando il nostro orecchio sul suo Cuore, in Lui siamo elevati all’ascolto del Padre, a un’altezza che non ci innalza al di sopra degli altri, ma ci protende verso le latitudini vicine e lontane dei nostri fratelli e sorelle da servire come il Buon Pastore e ci sospinge a visitare trasversalmente tutte le dimensioni dell’esistenza, tutte le realtà umane nelle quali la misericordia di Cristo continua ad attenderci.

Non solo per ricevere da noi il nostro servizio, ma anche per arricchirci di quell’esperienza dello Spirito che solo il Cristo presente in quelle periferie dell’anima e dei popoli può rivelarci.

Francesco Savino, Vescovo di Cassano all’Jonio

                                                                                        a cura di Vincenzo Fiore

Clicca qui sotto per leggere il mio articolo precedente:

“a tu per tu con…” gli Auguri di Mons. F. Savino

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Vincenzo Fiore
Sono Vincenzo Fiore, nato a Mariotto, borgo in provincia di Bari, il 10 dicembre 1948. Vivo tra Roma, dove risiedo, e Mariotto. Sposato con un figlio. Ho conseguito la maturità classica presso il liceo classico di Molfetta, mi sono laureato in Lettere Moderne presso l’Università di Bari con una tesi sullo scrittore peruviano, Carlos Castaneda. Dal 1982 sono iscritto all’Ordine dei Giornalisti, elenco Pubblicisti. Amo la Politica che mi ha visto fortemente e attivamente impegnato anche con incarichi nazionali, amo organizzare eventi, presentazioni di libri, estemporanee di pittura. Mi appassiona l’agricoltura e il mondo contadino. Amo stare tra la gente e con la gente, mi piace interpretare la realtà nelle sue profondità più nascoste. Amo definirmi uno degli ultimi romantici, che guarda “oltre” per cercare l’infinito e ricamare la speranza sulla tela del vivere, in quell’intreccio di passioni, profumi, gioie, dolori e ricordi che formano il tempo della vita. Nel novembre 2017 ho dato alle stampe la mia prima raccolta di pensieri, “inchiostro d’anima”; ho scritto alcune prefazioni e note critiche per libri di poesie. Sono socio di Accademia e scrivo per SCREPMagazine.

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