Giuliano Pasqualetto e le geometrie simboliche:
il quadrato della malinconia
Dove sono oggi?
A Dolo, a circa 17 Km da Venezia e 19 km da Padova e a metà strada tra Padova e Venezia.
Dolo è centro mandamentale dei cosiddetti “Comuni della Riviera del Brenta” poiché costituisce il cuore dell’economia e dell’artigianato della Riviera.
Dotata di un centro storico ricco di squarci paesaggistici pittoreschi e bellissimi, la cittadina offre ai turisti, oltre ai famosi ristoranti di pesce, la possibilità di visitare molte ville di grande pregio, come Villa Ferretti Angeli, Villa Andreucci, Villa Brusoni Scalella, Villa Velluti, gli antichi Mulini attualmente adibiti a bar e lo ‘Squero’ cinquecentesco, l’unico ancora esistente, dove venivano riparate e trovavano riparo le barche.
Il nome “Dolo”?
Sull’origine del nome si sono avanzate numerose ipotesi.
Qualcuno afferma che appaia in una pergamena del 1241.
Altri lo collegano al fatto che qui, verso la seconda metà del ‘400, Venezia inviasse persone macchiate di colpe, indesiderate.
Altri rimandano ai nomi di famiglie facoltose e influenti come i Dauli o i Dotto.
E ancora: Dolo come contrazione del nome della centrale Isola Dandolo, attuale zona tra via Mazzini e via Dauli, dove sorgeva un oratorio prima e la chiesa poi.
Una curiosità?
Agli abitanti di Dolo, si ricollega il detto: “I storti di Dolo”.
Se si vuole prendere alla lettera, la parola “storti” non si riferisce al fatto che i dolesi siano mal formati nella persona, ma agli “storti” veri e propri: i famosi coni di pane di frumento usati per la panna montata.
Con chi sono?
Con l’amico Giuliano Pasqualetto presso il bar dell’albergo “alla Campana” per gustare un ottimo caffè e porgli una domanda relativa a un appunto che so che ha recentemente sviluppato.
La domanda?
Questa: “La geometria è una scienza poetica?”
La sua risposta immediata?
“Si direbbe di sì, o quantomeno è una disciplina artistica”.
Chi è Giuliano Pasqualetto?
Docente di lettere alle superiori per un quarto di secolo, dopo aver svolto vari lavori.
Attualmente in pensione, oggi al lavoro per sistemare appunti vari che aveva buttato giù nel corso degli anni, dei decenni.
E da queste sistemazioni hanno visto la luce Sguardi sulla Brenta con le illustrazioni di Raffaele Bovo, opera pubblicata in proprio, tre volumi sui viaggiatori che hanno parlato della Brenta (sì, per Giuliano è un’idea fissa): Nel giardino di Armida, Diabolica Arcadia, Altri labirinti, editrice la Cedam di Padova, e due romanzi, La chiusa e Lune da festa.
Altri interessi e produzioni trovano la loro sede nel sito a questo link:
Giuliano è socio fondatore dell’Associazione culturale di Dolo “La pentola dei nodi”, dove ha modo di condividere opinioni, passioni e interventi sulla vita sociale della zona.
E ora prende il via la riflessione di Pasqualetto a supporto dialettico della mia domanda e della sua fulminea e secca risposta.
Una riflessione su come la forma, apparentemente banale, del quadrato abbia dato luogo nella storia a una grande quantità di variazioni iconiche e letterarie, senza tralasciare la sintesi fra le due discipline.
Si parte dall’analisi attenta di due grandi “quadrati”: la Melencolia I di Dürer e il Quadrato nero di Kazimir Malevič.
“Fai attenzione” – tuona Giuliano – “il cammino della mia riflessione è impervio e scivoloso, e parte dall’analisi attenta di due grandi “quadrati”: la Melencolia I di Dürer e il Quadrato nero di Kazimir Malevič”.
“L’incisione di Dürer, Melencolia I, ricca di mistero, è stata concepita e realizzata a Norimberga nel 1514: tre anni prima che Martin Lutero scardinasse alcune delle basi millenarie su cui si reggeva la Chiesa Cattolica e un ordine politico e sociale che aveva retto, bene o male, l’Europa.
Non a caso il clima emotivo dominante in quella tavola è l’attesa fatta di meditazione e progetto e furore represso.
Un angelo è il protagonista della stampa.
Uno strano angelo, con un’espressione torva e minacciosa, che poco si addice a quella confraternita.
E così pure il suo giovanissimo collega: eppure tutt’e due hanno ali che potrebbero portarli a spasso per i cieli.
Il più anziano ha una corona di fronde: che sia eccellente in qualche scienza o arte? Che ora è, su questa riva marina, dove gli uomini hanno costruito case e chiese, e piantato alberi, e allestito un porto?
Quello che sfolgora sullo sfondo è un sole, un astro, un effetto pirotecnico?
E quell’inquietante figura di pipistrello dalla coda a cavatappi, che regge una frastagliata cartagloria col titolo del disegno?
E non manca la speranza: dev’essere appena passata la tempesta, c’è un arcobaleno, momento sublime di quando si chiuse il diluvio, dopo settimane di apprensione.
E appare un miraggio di felicità.
Se andiamo più avanti, il mistero si infittisce: a partire da quello strano “troncato romboedrico” che occupa la scena intorno, a metà altezza.
Si potrà dire che, a occhio, è persino facile da realizzare: prendi un esaedro, ossia un cubo schiacciato in modo che le facce risultino romboidali invece che quadrate, taglia due punte contrapposte a metà lunghezza degli spigoli e il gioco è fatto: ne esce questo strano ottaedro.
Certo: e lo sanno fare.
Qui sembra la bottega di un falegname a giudicare da chiodi, pialla, tenaglia, martello, sega che ingombrano la scena.
Eppure la stranezza, il disagio persino che produce quest’oggetto è palpabile.
Il nostro angelo pensieroso sa di geometria, sembra.
Tiene in mano un compasso, ha in grembo un libro, chiuso con un robusto fermaglio di cuoio.
E ha pure certi strumenti di misura: una bilancia per il peso, una grande clessidra dotata in più di meridiana che servirà a segnalare lo scorrere del tempo.
Per fare da contrasto al romboedro, una bella sfera, illuminata e regolamentare. A terra un cane: macilento, affamato, si direbbe dall’esibizione radiografica delle ossa; e una bella borsa arricciata: cosa ci sarà dentro?”
Un bel rompicapo, interrompo…
“Un rompicapo che ha provocato una quantità notevole di tentativi di spiegazione: per lo più rinviano a una dimensione ermetica ed alchemica, che si richiama alle teorie platonizzanti e alquanto visionarie di Marsilio Ficino.
Ma per questo meglio rifarsi a quanto scritto in modo particolare dalla scuola iconologica che ha avuto come capifila Aby Warburg e Erwin Panovsky.
Qui mi limito a considerare quella specie di insegna che sta sotto la campana, in alto a destra: ovvia evidenza è un quadrato magico.
Si tratta di un gioco matematico, molto serio come capita coi giochi: dato un quadrato di un certo numero di caselle,(nel nostro caso quattro per quattro, ma si possono dare molti, anzi probabilmente infiniti casi, trovare dei numeri tutti diversi che, distribuiti nelle caselle, diano la stessa somma per colonna, per riga, per diagonale.
Sembra difficile, ma basta considerare il caso concreto qui offerto da Dürer per realizzare che sommando i numeri colonna per colonna, o riga per riga, si ottiene sempre 34, e così per le diagonali.
Il 34 sarà dunque il numero magico di questo quadrato di ordine (lato) 4.
Doppiamente quadrato, dunque, perché può essere suddiviso in quattro quadrati due per due, che da parte loro non potrebbero essere magici in nessun modo.
Se ricordo bene nella tradizione matematico-esoterica questo quadrato magico è riferito a Giove, inteso come dio e soprattutto come entità astronomico-astrologica?
Sì e riassume le caratteristiche del quadrato: stabilità, negazione del movimento, stagnazione, solidificazione.
Quando ci imbattiamo nel quadrato, troviamo qualcosa di definitivo: tant’è vero che la Gerusalemme Celeste, nelle raffigurazioni medievali, assume forma quadrata.
Che è pure quella ideale del castello, un quadrato con torricelle agli angoli e un torrione al centro.
Secondo Platone il quadrato è, come il cerchio, assolutamente bello in sé.
Quadrata era, nella tradizione, la pianta generale della Roma progettata da Romolo, e da lì si capisce il carattere dell’Urbe, che la portò per un certo tempo ad essere il centro del mondo.
Se noi inseriamo nel quadrato la figura di un uomo, come fece per esempio Leonardo nell’uomo vitruviano, che presenta peraltro l’inscrizione pure in un cerchio:
ci rendiamo conto di aver realizzato una croce.
È una figura correlata al quadrato, e potremmo fare su di essa le medesime considerazioni.
Ci basti osservare che la stabilità del quadrato, dentro questa logica e in una prospettiva cristiana, è raggiungibile soltanto attraverso una lunga sequenza storica, che prende appunto il via con la croce.
Qualche studioso ha osservato che sul lato inferiore del quadrato di Dürer si leggono le cifre 15 e 14 che, unite, danno la data 1514 in cui è stato realizzato.
Infatti ti dicevo prima che siamo in un clima culturale e morale che prelude alla Riforma luterana.
Preoccupazione, dunque.
L’arcigna compostezza dell’angelo può essere dunque riferita a questo particolare momento storico, caratterizzato dall’attesa e dalla consapevolezza che la perfezione denotata dal quadrato, questa beata stabilità di Giove, è lontana, ed anzi inattingibile agli uomini, e forse persino agli angeli, nonostante tutta la loro capacità di costruzione razionale e scientifica.
Di qui la malinconia.
La contemplazione del quadrato e della sua perfezione determina dunque in noi la consapevolezza dell’inadeguatezza: siamo inermi di fronte ad essa, noi come i più grandi santi, che, anche loro, sono esposti a questo sentimento.
Quattro secoli dopo, un altro grande artista fu affascinato dal quadrato.
Con quadri che annunziano una nuovo grande sconvolgimento epocale, la rivoluzione russa.
Siamo nel 1915, e con alcuni altri autori Kazimir Malevič lancia il suprematismo: è l’epoca delle avanguardie.
Niente complicazioni, stavolta, niente orpelli esoterici.
Semplicemente austerità: mezzi semplici, elementari.
Nemmeno una figura da interpretare.
Eppure…
Ecco i quadri, non sono i soli, ma bastano a rendere l’idea, cui si riferisce Giuliano Pasqualetto.
Buoni tutti, mi dirai.
Sì. Buoni tutti.
Però, queste valutazioni appartengono alla mera tecnica: e non è questo a interessare.
Quello che conta è l’idea.
In altre parole, una delle forme d’arte che hanno occupato la scena a partire dagli inizi del secolo scorso è quella che diciamo “concettuale”.
Non che in Michelangelo o Monet manchino concetti: ogni arte è concettuale.
Si tratta di capire quanta importanza vi diamo.
In questi artisti del Novecento è quasi tutto.
Malevič diceva che il suo quadrato era l’ “icona del nostro tempo”.
Un’immagine religiosa, dunque.
Com’è un’icona?
Se ci limitiamo a dire “icona” è probabile che tutti capiscano, ma la questione è definirla.
E una definizione non può che essere basata su elementi ricorrenti che ci devono essere, alcuni relativi al contenuto: il “ritratto”, certo idealizzato, di qualche personaggio “santo”; altri relativi alla forma.
Il fondo d’oro è forse il più caratteristico.
Ma icona, possiamo ben dirlo, è anche altro: innanzitutto è una pittura.
Che comunica sulla base di un codice che tutti conoscono, la maggior parte implicitamente, qualche studioso e qualche artefice più esplicitamente.
Se rifletto sull’oggetto “pittura” o “quadro”, trovo che ci sono alcune varianti.
La prima e più importante: è qualcosa che sta sopra una superficie, che possiede due dimensioni: gli appesantimenti materici di certi pittori non arrivano mai a formare un bassorilievo.
Poi, è una superficie delimitata: persino le pitture murali sono avvolte da cornici vere o finte, quanto meno un filetto che indica il passaggio dalla zona generica a quella oggetto d’arte.
In assenza basta il contrasto con quello che c’è intorno: l’aria, se il quadro è appoggiato al cavalletto; il muro se è appeso.
Un “quadro”, ho osservato: ossia una superficie delimitata da quattro segmenti di retta.
Di tutto il genere, il modello è appunto il quadrato: quattro segmenti uguali e connessi con angoli uguali.
Una volta che ho delimitato l’area, ho il supporto per un’icona: basta dipingerla.
Cosa ci metto?
Quello è affar mio.
Un anatroccolo, il panorama delle cime di Lavaredo, le scarpe che ho consumato per scalarle, un girasole, molti girasoli, uno scaffale di bottiglie con olio di girasole, Clementina o Gigetto o la cagnetta Mascherina…
Immagini?
Ma cos’è poi un’immagine?
Possiamo metterci d’accordo per qualcosa che ha una forma: il girasole è un cerchio, lo scaffale un rettangolo…
Il mio autoritratto un ovale, pressappoco.
E allora, perché non disegnare semplicemente le forme?
Semplifichiamo, come fanno gli scienziati.
Rettangoli, quadrati, cerchi, triangoli…
Un quadrato, così regolare, stabile, compatto, non è meglio di tutto?
Ti dice molte cose della vita: la ricerca della forza di vivere non è quadrata?
La resistenza alle tentazioni non è quadrata?
Un castello non è quadrato?
L’ordine in cui è interconnesso l’universo: angoli uguali, lati uguali, regolarità. La casa dove abito, forse, e quasi di certo la stanza dà un senso di tranquillità, In una stanza quadrata le cose non ti sfuggono.
La rivoluzione è quadrata: l’ordine del mondo che verrà e che sarà, ne siamo sicuri, l’ordine vero, assoluto, definitivo.
Salvo cambiare idea quando l’avremo fatta, ma questa è un’altra storia.
La fecero, nella Russia di Malevič, la rivoluzione, giusto nel 1917.
Dürer, con la sua malinconia, esprimeva la necessità di un rinnovamento che, puntuale, ci fu anche allora: un paio d’anni dopo, nel 1517, cominciava la Riforma protestante, ma già si annunciava la rivoluzione scientifica.
Che doveva qualcosa alle scienze occulte, alla numerologia, alle variegate presenze alchemiche di quell’incisione.
Malevič annuncia una più evidente rivoluzione sociale e politica, un esperimento durato quasi un secolo e che ha lasciato tracce profonde.
Il quadrato è sotteso ad ambedue queste opere, che hanno, a ben vedere, un significato profetico.
Che ha a che fare con il nostro essere al mondo, a questo mondo terreno, piatto, che però sta sotto un cielo che ci appare sferico?
René Guénon scrive:
Le forme quadrate o cubiche si rapportano alla terra e le forme circolari o sferiche al cielo.
Il significato di queste due parti ne risulta immediatamente. Aggiungeremo che la terra e il cielo non denotano qui unicamente i due poli fra cui si produce tutta la manifestazione (…) ma comprendono anche gli aspetti di questa manifestazione che sono i più vicini rispettivamente a questi due poli e che, per questa ragione, sono detti mondo celeste e mondo terrestre.
Scegliere il quadrato significa dunque aderire alla terra: per quanto a Malevič non siano estranee propensioni mistiche, è sempre a una mistica terrena che aspira.
Di qui la rivoluzione.
Resta che la terra è, nella sua materialità, concreta e limitata.
Scegliere la terra è riconoscersi nel limite.
E il limite comporta per l’uomo il riconoscimento della propria limitatezza.
Di qui la malinconia.
Altri sceglieranno il cerchio, la sfera, il cielo, il trascendente.
Ma è un’altra storia.
Hai avuto ragione, caro Giuliano, il cammino della tua riflessione è stato impervio, scivoloso e per alcuni aspetti anche complicato.
Alla prossima, ciao, rientro in redazione…magicamente…
Vincenzo Fiore