“L’amore invisibile”, Eric-Emmanuel Schmitt
Parigi.
Finalmente una mattina di sole dopo diversi giorni di pioggia. Un uomo è seduto su di una panchina in compagnia di un amico. Mentre i due conversano, l’uomo è colpito da una scena: una donna, seduta su una panchina di fronte alla loro, dà da mangiare ad alcuni uccelli, che si contendono il cibo scacciandosi l’un l’altro pur di beccare quelle briciole di pane.
Ciò che colpisce l’uomo non è tanto il comportamento della donna, ma la donna stessa.
Una donna ben vestita e ben pettinata. Sembra appena uscita dal parrucchiere.
L’uomo pensa tra sé : “Una borghese che dava da mangiare ai volatili di Parigi”. Ad un tratto, l’amico gli fa segno di osservare un uomo sulla sessantina, ben curato, con un quotidiano in mano. L’uomo sta cercando una panchina sulla quale sedersi. E si avvicina lentamente, alla panchina dov’è seduta la donna. Le panchine sono tutte occupate. E così finisce per sedersi accanto alla donna. Che, come nulla fosse, continua a dar da mangiare agli uccelli.
I due si ignorano volontariamente, nessun cenno, nessun saluto. L’amico gli confida che conosce la storia della coppia, perché un tempo quei signori distinti sono stati marito e moglie. Oggi sono separati. Hanno diviso tutto, anche l’appartamento dove vivevano, realizzando due ingressi distinti. La storia, riferisce l’amico, gli è stata raccontata da un’amica comune di Séverine, la donna che getta le molliche di pane agli uccelli.
Séverine e Benjamin Trouzac un tempo si erano molto amati.
Benjamin lavorava al Ministero della Sanità. Era apprezzato per la sua intelligenza ed autorevolezza. E proprio per le sue qualità riceveva incarichi sempre molto impegnativi. Séverine faceva la giornalista. Scriveva su riviste femminili. Ed era molto apprezzata per la sua intelligenza frivola e divertente.
Una coppia benestante, a cui non mancava nulla. Eccetto una famiglia…
Ma il progetto di metter su famiglia per quanto fosse desiderato da entrambi, non era sentito ancora in maniera urgente. Preferivano ancora divertirsi, viaggiare, vivere di piaceri.
Al compimento dei 35 anni Séverine iniziò ad avvertire il bisogno di avere un figlio.
In quello stesso periodo sua sorella aveva dato alla luce una figlia affetta da una malattia rara. Un evento che preoccupò molto Benjamin: “Ho paura di quello che ci potrebbe aspettare. Ci sono stati bambini nati con malformazioni nelle nostre famiglie. Non si scherza con queste cose, Séverine!”.
La donna rimandò per un pò gli esami diagnostici. Alla fine si decise. E si sottopose insieme al marito ad alcuni esami genetici. La risposta confermò che la donna era portatrice di geni che avrebbero potuto generare patologie invalidanti. La dottoressa le suggerì, quindi, di appurare attraverso esami specifici, non appena fosse rimasta incinta, la presenza di patologie.
Séverine rimase sollevata dalla risposta: c’erano quindi delle possibilità che andasse tutto bene.
Al compimento dei 37 anni rimase incinta. Ma il verdetto dell’esame genetico fu: mucoviscidosi.
La mucoviscidosi è una malattia caratterizzata da un’affezione per la quale il muco si accumula nelle vie respiratorie e digestive. Il figlio avrebbe sofferto di malattie polmonari, per far fronte alle quali si sarebbe dovuto sottoporre a cure molto pesanti. Inoltre avrebbe avuto una speranza di vita molto breve. Questo era stato il verdetto della dottoressa.
Séverine e Benjamin passarono giorni angoscianti. Dovevano prendere una decisione. E dovevano farlo al più presto. La gravidanza era in uno stato molto avanzato. Consultarono colleghi ed amici del ministero di Sanità. Ognuno gli restituiva un’informazione diversa. C’era chi sosteneva che la morte sarebbe sopraggiunta durante l’adolescenza. E chi, invece, diceva che sarebbe stato possibile condurre una vita da adulto.
A chi credere? Una sera, in tv, videro un programma televisivo sulla disabilità. Il servizio sottolineava le sofferenze che vivono quotidianamente le persone affette da gravi malattie, assieme ai loro genitori.
La coppia quella sera prese con estrema sofferenza la decisione. E scelsero di interrompere la gravidanza. Séverine abortì pochi giorni dopo.
Le settimane successive all’intervento furono strazianti per entrambi. Il dolore comune che avrebbe dovuto avvicinarli, finì per separarli lentamente. Non parlarono più del figlio. Come se fosse un “fantasma”.
Li soccorse una terapia di coppia. Che li aiutò a riprogettare il loro rapporto.
Ripresero a viaggiare, a vedere amici, a far l’amore, ad amarsi con un’energia nuova.
Un giorno decisero di trascorrere una breve vacanza a Chamonix. Entrambi erano abili sciatori. Quel giorno decisero di lasciare le piste tracciate. E di avventurarsi su percorsi sconosciuti. Mentre sciavano in quei percorsi solitari, il silenzio ovattato che li accompagnava fu rotto, all’improvviso, dal grido di Benjamin.
Séverine urlò anche lei dopo di lui. Erano caduti entrambi in un crepaccio. Dopo qualche secondo si resero conto di non avere riportato ferite importanti. Avevano fatto un volo di 15 metri. E non c’era alcuna possibilità di risalire senza aiuto. Quindi iniziarono ad urlare. Inutilmente. Passarono alcune ore e si resero conto che presto il sole sarebbe tramontato. Temevano per la loro vita. Il timore che le ore successive sarebbero state le loro ultime ore si faceva sempre forte.
Fino a quando comparve, in cima al burrone, il volto di una giovane ragazza. Con un fare energico la giovane si accertò che stessero bene. E gli disse che sarebbe tornata presto a riprenderli. Avrebbe chiesto aiuto. Da sola non aveva i mezzi per tirarli fuori dal crepaccio.
Si ripresentò dopo circa un’ora con una corda, l’aveva strappata da un paletto che segnava il limite del percorso.
Ci volle qualche minuto ma, finalmente, la giovane riuscì a tirar fuori dal crepaccio prima Séverine e poi Benjamin.
Una volta tornati in superficie la ragazza disse loro, sorridente ed eccitata per averli salvati, di chiamarsi Melissa. Aveva circa 20 anni.
Rientrata allo chalet, dopo aver preso analgesici ed antinfiammatori, la coppia chiamò Melissa per ringraziarla nuovamente, prima di rientrare a Parigi. La ragazza li invitò a raggiungerla in un pub quella sera stessa, insieme ad altri amici.
Séverine e Benjamin accettarono l’invito, sarebbe stata l’occasione per loro di brindare alla nuova vita. Gli amici di Melissa erano ragazzi tra i diciotto ed i vent’anni, un gruppetto molto affiatato. Mentre si riscaldavano bevendo del vino, Séverine e Benjamin osservavano la loro salvatrice che si scatenava sulla pista da ballo, piacevolmente presi dalla sua energia e vitalità.
Un ragazzo del gruppo colse i loro sguardi meravigliati dalla scena e li avvicinò. Disse loro che Melissa era una ragazza fantastica, sempre piena di iniziative ed energie. Aggiunse anche che nessuno avrebbe mai immaginato che la ragazza soffriva, in realtà, di una malattia rara.
La coppia chiese al giovane di che malattia si trattasse. “La mucoviscidosi…” rispose il giovane.
“Séverine e Benjamin diventarono lividi. Muti, con la bocca aperta, le mani tremanti, seduti sulle spine, gli occhi fissi su Melissa, avevano appena visto un fantasma”.
“Il figlio fantasma” è la storia di un figlio, mai nato perché “diverso”, in quanto affetto da una malattia invalidante.
Ma è anche la storia di una coppia che ha paura. Paura di sbagliare, soprattutto di soffrire per i disagi che il figlio e loro stessi avrebbero dovuto affrontare con la sua nascita.
Una coppia che tenta di uscire da una situazione aggrovigliata, decidendo per l’unica soluzione razionale: l’aborto. Mentre in realtà si ritrova in una dimensione emotiva ancora più tortuosa e angosciante. Un luogo fatto di recriminazioni reciproche, di distanze e solitudine.
Decidere di dare la vita ad un figlio “diverso”, perché malato, con la consapevolezza che sarebbe andato incontro ad una vita di sofferenze, significava per la coppia proiettare il nascituro verso un destino di solitudine. Ma sarebbe stato veramente così?
In che modo, invece, quell’ esperienza avrebbe condizionato le loro vite ‘perfette’, fatte di cene, viaggi, di quella continua ricerca di vivere nell’agio e nel benessere? Una felicità apparente. Perché l’incontro con la giovane Melissa getterà la coppia in un burrone più angusto di quello da cui erano stati salvati.
Un luogo fatto di vita non vissuta. Di scelte di comodo, di condizionamenti, di paure.
Il figlio ‘fantasma’ rappresenta un figlio ‘diverso’. E’ un figlio che chiede di essere accolto ed amato dai propri genitori, dalla società, dal gruppo di pari, semplicemente per quello che è.
Un figlio che, secondo i canoni della nostra società, quelle dell’opulenza e del benessere a tutti i costi, rischia sempre di vivere con difficoltà il suo senso di unicità e diversità.
Un figlio che si trova quotidianamente a vivere una dimensione esistenziale centrata sul mondo di aspettative genitoriali e sociali. In cui la performance e la ricerca della felicità sono imperativo categorico.
Un mondo in cui il figlio “diverso” si sente sempre più perso nella sua solitudine.
Come se la diversità non consenta di vivere momenti di felicità. Non consenta di amare e sentirsi amato.
La sofferenza oggi è mal tollerata. Eppure è una dimensione importante della vita, della vita di tutti noi.
E, nella maggior parte dei casi, chiede solo di essere ascoltata, accolta e legittimata in quel flusso di esperienza ed emozioni che trasforma l’esistenza di ognuno da anonima ad “unica”.
Quindi proviamo a recuperare una visione di noi stessi meno aperta al risultato, all’efficienza, al benessere ad ogni costo. Ci sono e saranno passaggi a volte più difficili, più dolorosi, a volte più scoscesi, altre più scorrevoli… la vita in fondo chiede solo di essere vissuta.
Dedicato ai figli “diversi”, ai nostri fratelli figli unici.
Clicca il link qui sotto per leggere il mio articolo precedente: