Anno 1989.
Avevo un paio di gambe magrissime, i capelli corti come un bambino ribelle ed un abbigliamento che lasciava presagire a tutti gli effetti ch’io fossi un maschietto vivace.
Ho provato, nel corso degli anni, a chiedere a mia madre il perché di quello stile così androgino.
Mi ha sempre risposto che fosse una questione legata alla moda imposta dai tempi e che all’epoca non esisteva poi così tanta differenza tra bambini e bambine.
Eppure, se devo dirla proprio tutta, ne vidi parecchie di “bamboline” imbellettate con treccine bionde, nastri e gonnelline di ogni genere, accessori che circa due anni dopo imposi senza se e senza ma a me stessa, autonomamente e con fermezza.
“Sono una femminuccia, che diamine!”
Ma il 1989 fu di fondamentale importanza per un altro aspetto che avrebbe determinato in positivo il mio avvenire: cominciai a frequentare la prima elementare.
E fu proprio allora che la mia vita assunse una connotazione intrisa di parecchie e di novelle consapevolezze.
Su queste ultime, mi soffermerò strada facendo.
Scrivo di questi ricordi a partire da una rimpatriata che avverrà da qui a breve.
Avrò il piacere di condividere un’intera serata, all’insegna dei ricordi migliori, insieme con i miei compagni di scuola elementare.
Quelli con i grembiulini azzurri come il mio, quelli che se tradivano lo facevano per un cioccolatino o per un pacchetto di patatine.
Questi eravamo noi.
Vedete, il compagno di scuola non è solo una figura che prende semplicemente posto a sedere a fianco a te al di là del medesimo banco.
Il compagno di scuola (e soprattutto certi compagni di scuola) diventa l’anima della tua esistenza, si fa inconsapevole conoscitore di gioie e di dolori che non racconteresti a nessun altra persona al mondo, è destinato a divenire il tuo più grande amico di sempre e per sempre, oppure si allontanerà inesorabilmente da ciò che fosti, da ciò che sei e da quel che sarai, così, senza una ragione ben precisa.
È probabile che tutto questo stia nella naturalezza degli accadimenti.
Fatto sta che ciascuno di loro, a modo suo, è e sarà certamente indimenticabile, almeno per me.
Ricordo che varcammo la soglia di quell’aula un po’ impauriti, un po’ spiazzati, un po’ timorosi di quel che ci avrebbe atteso da lì a breve.
Ho sempre affermato che la scuola che frequentai da piccola fosse il luogo ideale all’interno del quale consentire ad un bambino di crescere serenamente.
Ahimè, non esiste più, l’hanno trasformata in una sede che ha implementato una serie di uffici di genere vario.
Che peccato, chissà che infinità di scartoffie!
Era un antico convento di suore di clausura. Ogni porticina che consentiva l’accesso alle tante aule era costruita in legno.
Un porticato dello stesso materiale sovrastava l’ingresso alle stanze.
I ciottoli all’esterno fungevano da pavimentazione e non esisteva alcuna rampa di scale che conducesse ai piani superiori.
Solo tre gradini consentivano di accedere a pochissime classi, che si trovavano in una zona dell’edificio che non dava sul cortile interno.
E poi… Poi inalavo qualcosa di inconsueto che non scorderò giammai: un’ intensissima fragranza di mosto che si insinuava con caparbietà all’interno delle nostre narici, da settembre a giugno, inspiegabilmente.
Non ho mai capito da dove arrivasse quell’ottimo profumo.
Quel che so è che mi rasserenava parecchio, lo adoravo.
Amai quel luogo sin dal primo istante in cui vi misi piede.
La maestra Rosetta, ai tempi, era una donna molto giovane.
Autorevole, dotata anche di una buona dose di autorità, severa ed estremamente precisa nel suo modo di improntare la didattica, un’educatrice alla vecchia maniera.
Ma sapeva essere, non in ultima istanza, un’insegnante estremamente dolce, sensibile e materna, ed io ebbi la grande fortuna di assaporare il suo lato caratteriale migliore e certamente rassicurante.
Provo tuttora un’infinità di affetto per la maestra Rosetta.
Forse devo a lei più di quanto ella stessa possa immaginare.
Se non fosse stato per l’intuizione di questa donna dal carattere forte ed austero e per la sua cospicua esperienza in termini disciplinari e di grande conoscenza delle potenzialità detenute da un infante, io, probabilmente, a quest’ora non sarei qui a scrivere un bel niente.
Quando nel maggio del 2018 presentai la mia prima raccolta di liriche dal titolo “Aliti inversi”, dedicai un frammento del suo contenuto proprio alla maestra Rosetta, affinché ciascun lettore potesse essere veramente consapevole degli accadimenti reali, affinché tutti avessero la possibilità di comprendere quali furono le vere origini dalle quali tutto ebbe inizio.
In “Aliti inversi” si leggono queste testuali parole :”avevo compiuto sei anni da diversi mesi quando, colta di sorpresa dalla sensazione di smarrimento dovuta alla singolare circostanza, mi sentii afferrare con decisione il braccio destro.
Si trattava del tocco severo ed autorevole della mia maestra.
Mi chiese di seguirla.
Avevo paura, non riuscivo a comprendere cosa fosse esattamente accaduto.
Sapevo di non essermi comportata in maniera scorretta, di non aver commesso colpe che meritassero rimbrotti né punizioni.
Percorremmo un brevissimo tratto di corridoio.
Bussò alla porta della classe quinta. Entrammo. Pose tra le mie mani un foglio di carta protocollo lo stesso sul quale, pochi minuti prima, avevo scritto un lungo pensiero su mia madre.
Mi esorto’ a leggere ad alta voce.
Lessi.
Quando terminai fui letteralmente investita da un fragoroso e calorosissimo applauso.
Quei bambini più grandi avevano degli sguardi esterrefatti, mi sorridevano.
Quel giorno capii di saper fare qualcosa.
Non ho mai smesso di scrivere, mai.
Credo di dover molto alla cara maestra Rosetta.
Fu la prima persona in assoluto a capire.
Credette in me sin da subito, sin dall’istante inaugurare di iniziazione alla scrittura, momento che sancì un patto di fedeltà indissolubile tra la mia indole tumultuosa e la penna.
Conserva tutti i miei temi, tutti.
Asserisce che non me li restituirà giammai.
Oggi restituisco io qualcosa a lei: la piena gratitudine.
Coloro i quali manifesteranno la volontà di dedicare un po’ del loro tempo alla lettura del mio libro, non si saranno solo imbattuti nella scoperta di contenuti nuovi, ma avranno conosciuto veramente qualcuno: avranno conosciuto me.”
Ecco, questo è quanto scrissi all’interno della raccolta in merito alla maestra Rosetta.
Chissà quanto forte sarà l’abbraccio quando a breve avremo modo di rivederci.
E se questo non si dovesse rivelare possibile, a causa delle misure precauzionali ancora non del tutto soggette a superamento, la guarderò con un’intensità tale da trasmetterle tutto il calore del quale sono capace.
Il sabato era il giorno dedicato al tema in classe.
Non v’era sabato, dunque, in cui non avessi dovuto leggere il mio scritto alla presenza del direttore.
Questa sorta di rito gratificante si protrasse per ben cinque anni.
I miei compagni lo ricordano bene.
Vittoria, che adesso è la mamma di due splendidi bambini, prima della pubblicazione del libro seguitò a dirmi qualcosa di molto bello: “Congratulazioni Cristina, il tuo sogno si avvera. Ricordo quanto la maestra ti stimasse e quanto tutti noi ci sforzassimo a scrivere come te. Ma nulla, non c’era niente da fare. Tu eri tu, nessuno riusciva ad eguagliarti”.
Quelle parole furono ossigeno per il mio cuore.
I miei compagni si ricordano ancora di me e quel che più mi rende felice è che il suddetto ricordo è strettamente connesso a ciò per cui vivo da sempre e che mi salva nei momenti peggiori della mia esistenza: la scrittura.
A breve li rivedrò e mi auguro vivamente che non manchi nessuno all’appello.
Mi pare che per l’esattezza fossimo venti.
Ogni tanto si aggiungeva uno scolaro nuovo, ma ciò accadeva per un brevissimo lasso di tempo.
Fu un’infanzia particolare la mia, un po’ diversa e complessa, forse, da tutte le altre.
Crebbi troppo in fretta.
Ma adesso siamo sullo stesso piano: trentasette anni, quasi tutti dei genitori, di sicuro avremo gioito e sofferto in questo tempo interminabile, ventisette primavere per l’esattezza, ventisette estati dall’ultimo ingresso all’interno di quella scuola che mi ha offerto così tanto.
Ed io so già quale sarà l’esito della fine della serata.
Accadrà esattamente ciò che si verificò durante la festa di fine anno, in quinta elementare.
Ci recammo nella meravigliosa pineta della città di Alcamo ed io, come al solito ed immancabilmente, cominciai a cantare.
Avevo scritto la parodia di “Attenti al lupo”, di Lucio Dalla, modificando il testo in relazione a quello che si stava effettivamente verificando: un distacco non semplice, una sorta di addio che i bambini accettano a stento.
E dopo aver cantato a squarciagola raggiunsi un pino, il mio albero favorito.
Il pino ha la capacità di spalancare le mie percezioni verso un infinito emozionale che mi sovrasta.
Mi nascosi all’insaputa di tutti dietro quest’ultimo e piansi alacremente, piansi come se le lacrime sgorgassero da una fonte inesauribile.
Andrà così anche questa volta, ne sono sicura.
Ciò che mancherà sarà solamente il mio adorato pino, che potrò però rivangare con l’ausilio e la determinazione del mio pensiero, e forse la maestra Rosetta non indosserà i suoi vistosissimi bracciali in oro rosso.
Credo che tutto il resto sarà gioia…
Gioia e nostalgia…
Maria Cristina Adragna