Fratel Biagio che salvò Palermo

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Il 12 gennaio scorso è morto a Palermo, all’età di 59 anni, Biagio Conte, il missionario laico fondatore della Missione di Speranza e Carità.

Biagio Conte nasce a Palermo il 16 settembre 1963, trascorre i primi anni dell’infanzia in Svizzera per poi far ritorno nella sua Palermo all’età di 9 anni.

A 16 anni lascia la scuola e inizia a lavorare nell’impresa edile di famiglia.

Nel 1983, in preda a una profonda crisi spirituale, si allontana dal suo nucleo familiare e si trasferisce  a Firenze.

 

Nel maggio del 1990 avvia il suo percorso di vita da eremita e si ritira tra i boschi e le montagne della Sicilia, cibandosi di bacche e erbe.

Poi a piedi verso Assisi per conoscere i luoghi di San Francesco.

Durante il viaggio incontra barboni, zingari, carcerati ed emarginati di ogni genere. Questa umanità lo avvicina sempre più a Francesco e ai suoi insegnamenti e lo mette in sintonia con l’amore per gli altri, con chi soffre e ha bisogno di aiuto.

Rientra poco dopo a Palermo e si ferma alla Stazione, punto di raccolta dei cosiddetti barboni.

Vive con loro, li aiuta, li lava, mendica per loro un pezzo di pane e un pasto caldo sino ad occupare un vecchio edificio abbandonato che trasforma  nella sede della comunità dei poveri senza tetto e dimora, la Missione di Speranza e Carità dove, con le sue 10 sedi in Sicilia,  si dedica, fino agli ultimi istanti di vita, agli ultimi e ai più bisognosi.

“Biagio” – scrive Luigi Ciotti, presidente di Libera e Gruppo Abele“non ha predicato il Vangelo: lo ha vissuto, lo ha incarnato. Con i fatti e non solo con i discorsi, ci ha insegnato che la Parola evangelica è scomoda, a volte urticante, perché ci parla di un Dio da accogliere, prima che da cercare. Un Dio che si manifesta nelle persone fragili, povere, ferite nell’anima e anche nel corpo. Persone che, prima che “aiuti”, cercano fratelli capaci di mettersi nei loro panni. Questa è la responsabilità che ci lascia Biagio: di diventare più umani, più accoglienti.”

E’ il caso di dire senza alcun dubbio che Palermo, con la scomparsa di Fratel Biagio, ha perso una delle figure più importanti e di riferimento per i più poveri, spesso soli e dimenticati dalla società.

Al riguardo ScrepMagazine ha voluto ascoltare e registrare la voce della siciliana  Catia Catania, che, negli anni ’90, quando viveva a Palermo e si cominciava a parlare di Fratel Biagio e di quello che stava facendo, ha avuto modo di conoscerlo e parlargli.

Catia Catania è blogger, organizzatrice di rassegne letterarie ed eventi culturali, autrice con altri attivisti di Addiopizzo del volume Sicilia. Una guida non convenzionale e coautrice insieme al giornalista Giuseppe Ciulla  del  libro “La cala. Cento giorni nelle prigioni libiche”, che parla della vicenda del sequestro dei 18 pescatori  di Mazara del Vallo che stavano pescando sui fondali davanti al golfo della Sirte, trentaquattro miglia a nord di Bengasi, il pregiato gambero rosso.

Ecco quanto ci ha trasmesso Catia Catania, che ringraziamo affettuosamente.

“Hai visto, Biagio? Ce l’hai fatta, alla fine.

Non c’è eroe vivo che valga un eroe morto, scriveva Oriana Fallaci.

E adesso osservo questa città sfilare davanti a te, che sei diventato uno scricciolo dentro il tuo saio, su questo letto di dolore dove la malattia ti ha lentamente consumato e dove tu hai aspettato serenamente la fine mentre altri aspettavano invano un miracolo.

Qualcuno ha pure sperato che ad un certo punto tu, moderno Lazzaro, ti alzassi e riprendessi a camminare. Ma i miracoli, si sa, sono doni inaspettati e rari.

Ora che sono tutti in fila davanti al tuo corpo muto – i politici, la stampa, la TV, i potenti a cui hai chiesto risposte per decenni – penso a quanta strada hai fatto, coi tuoi sandali sporchi di terra e fango, da quel lontano 1990 quando tutto cominciò. Alla fine, caro Biagio, hai vinto tu.

Adesso finalmente tutti si sono accorti di te: la politica, le istituzioni, la Chiesa, questa città indifferente per decenni.

A quante porte hai bussato in questi anni, quanto hai supplicato, pregato, battuto i pugni sul tavolo per i tuoi poveri, per i tuoi fratelli?

Ora arrivano a migliaia a darti l’ultimo saluto, in centinaia son venuti qui alla cittadella a pregare nei giorni della tua agonia.

Hanno messo pure le navette, caro Biagio, a far da spola tra i punti nevralgici della città e via dei Decollati per consentire ai palermitani di portarti l’ultimo saluto. Avresti mai immaginato una roba simile?

Quattro giorni di camera ardente con un flusso inarrestabile di persone e poi il corteo che attraversa i luoghi più importanti della tua storia, la stazione centrale dove tutto ebbe inizio, la fiaccolata, la tua bara, una semplice cassa costruita a mano dai tuoi fratelli della missione portata a spalla, le vie del centro invase da un fiume in piena, diecimila persone alle tue esequie in Cattedrale.

 

Solo a Santa Rosalia Palermo aveva tributato tanti onori, finora.

Ma come ha scritto Roberto Puglisi, giornalista amico che ti è sempre stato vicino, se la Santuzza ha salvato Palermo dalla peste, tu l’hai salvata dall’indifferenza.

Adesso ti vogliono santo subito, ma quanto hai dovuto lottare, per arrivare sin qui, caro fratel Biagio!

Quanta sofferenza su quel corpo martoriato che non hai risparmiato fino alla fine, quando aggredito dalla malattia, ha dovuto arrendersi alle cure, a tutti i tentativi dei medici.

Ma non ti sei arreso tu, amatissimo Biagio.

Hai lottato finché hai potuto, ma su quel corpo erano ormai stratificati i segni delle tue battaglie.

Il lavoro massacrante alla missione, le notti insonni, il cammino con una croce enorme sulle spalle.

E poi quei digiuni che parevano interminabili, quando ti rifugiavi nelle grotte come un eremita o nelle notti all’addiaccio in cima alla scalinata dell’edificio delle Poste centrali di via Roma, ricordi Biagio?

Digiunavi e pregavi, e a chi veniva a trovarti per chiederti di finirla, ché ti stavi uccidendo, rispondevi dolcemente che non potevi.

Ringraziavi, li invitavi a pregare con te, e poi li mandavi via.

Un motivo per digiunare c’era sempre: le ingiustizie, la guerra in Ucraina (l’ultimo, un anno fa, che ti provò così tanto da causare il ricovero in ospedale e poi la scoperta della malattia),hai digiunato anche per salvare dal rimpatrio un giovane idraulico ghanese, che adesso è qui che piange come un bambino per la tua morte. “Chi mi aiuterà, adesso?”, continua a ripetere.

Il tempo ha dimostrato che avevi ragione tu, Biagio, ma a che prezzo?

Che ce l’avessi fatta lo intuimmo anni fa, era il 2018 e Papa Francesco venne a mangiare alla tua mensa dei poveri: olive, formaggio, caponata, couscous, pollo panato e cannoli.

Le verdure erano quelle dell’orto della missione Speranza e Carità, cucinate dai tuoi volontari.

Quel vostro abbraccio commosse tutti, perché dentro quell’abbraccio era racchiuso tutto il senso della tua vita, tutto ciò per cui avevi lottato.

Noi che ti conoscevamo, che ti avevamo conosciuto nella Palermo insanguinata e cupa degli anni ‘90, gioimmo per te.

Mi passano davanti i ricordi di quegli anni, quando tu, ricco rampollo di una famiglia benestante, indossasti il saio e cominciasti a girare per le campagne assolate della Sicilia, a salvare cani minacciati di morte dai pastori e a parlare con le pecore, nutrendoti di frutta e di bacche.

Fino ad Assisi, da quel san Francesco che aveva ispirato le tue scelte e le tue rinunce.

Al ritorno sognavi l’Africa ma trovasti l’umanità dolente che affollava le notti palermitane, quando la stazione centrale diventava terra di nessuno: barboni che dormivano per strada, prostitute, alcolizzati, tossici, migranti senza un tetto sopra la testa.

Quante notti passate a girare col camper per la città a distribuire coperte e the caldo, a cercare un ricovero sicuro, mentre tra noi giovani studenti si iniziava a parlare di te.

“A Palermo c’è un tizio che si veste da frate ma non è un frate, non è neanche un prete , è un pazzo, un folle visionario che vuol salvare i poveri, i senzatetto, i barboni” “Questo tizio si chiama Biagio Conte – si raccontava – si è spogliato delle ricchezze e incarna il vangelo facendosi lui stesso vangelo, occupa i capannoni abbandonati di via Archirafi perché ne vuole fare un centro di accoglienza.”

E mentre la politica è sorda, la chiesa è sorda, i giovani cominciano ad ascoltarlo questo visionario, alcuni lo seguono, chi può gli dà un una mano, qualcuno di quegli studenti di allora diventerà medico, biologo, giornalista e resterà lì, standogli accanto fino all’ultimo respiro.

Altri hanno aiutato come potevano, partecipando ai sit-in, portando coperte, cappotti, vestiti, cibo. Provando a non lasciarlo solo.

Adesso, in questo tiepido gennaio che è l’inverno della tua vita, sono tutti ai tuoi piedi, caro Biagio, ma quanto è stata dura arrivare fin qui!

Sono tornata pochi anni fa alla Cittadella, era prima dell’arrivo della pandemia che ha aggravato una situazione già complicata.

Speravo di rivederti, dopo tutti quegli anni, ma tu non c’eri.

Ci accolse padre Pino Vitrano, il tuo alter ego, colui che è stato sempre al tuo fianco in questi trent’anni e che raccoglierà la tua eredità.

Eri andato a piedi a Bruxelles, quella volta. Lì incontrasti il compianto David Sassoli che ti accolse come un amico, come un fratello.

Andai via dalla missione pensando che ci sarebbero state altre occasioni, si dice sempre così.

Nessuno di noi poteva pensare che ci avresti lasciato a soli 59 anni.

Qui adesso rimane il profumo di miracolo che è stata la tua vita.

Ti vogliono Santo ma tu di questo avresti sorriso.

Non ti importava di queste cose.

Era l’indifferenza degli uomini il tuo cruccio.

“Aiutateci a pagare le bollette”, diresti. “Pensate alla missione. Non abbandonate questi uomini e queste donne.”

Mi vengono in mente le parole di don Milani, andato via anche lui troppo presto, in quello che è considerato il suo testamento spirituale: “Caro Michele, caro Ferruccio, cari ragazzi…ho voluto bene più a voi che a Dio ma ho la speranza che Egli non badi a queste sottigliezze e abbia scritto tutto al suo conto”.

Vincenzo Fiore

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Vincenzo Fiore
Sono Vincenzo Fiore, nato a Mariotto, borgo in provincia di Bari, il 10 dicembre 1948. Vivo tra Roma, dove risiedo, e Mariotto. Sposato con un figlio. Ho conseguito la maturità classica presso il liceo classico di Molfetta, mi sono laureato in Lettere Moderne presso l’Università di Bari con una tesi sullo scrittore peruviano, Carlos Castaneda. Dal 1982 sono iscritto all’Ordine dei Giornalisti, elenco Pubblicisti. Amo la Politica che mi ha visto fortemente e attivamente impegnato anche con incarichi nazionali, amo organizzare eventi, presentazioni di libri, estemporanee di pittura. Mi appassiona l’agricoltura e il mondo contadino. Amo stare tra la gente e con la gente, mi piace interpretare la realtà nelle sue profondità più nascoste. Amo definirmi uno degli ultimi romantici, che guarda “oltre” per cercare l’infinito e ricamare la speranza sulla tela del vivere, in quell’intreccio di passioni, profumi, gioie, dolori e ricordi che formano il tempo della vita. Nel novembre 2017 ho dato alle stampe la mia prima raccolta di pensieri, “inchiostro d’anima”; ho scritto alcune prefazioni e note critiche per libri di poesie. Sono socio di Accademia e scrivo per SCREPMagazine.

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