“a tu per tu con”… Domenico Gambino e la leggenda del Marabito

179021

Domenico Gambino

e la leggenda del Marabito

La Sicilia è terra di storia, di miti e di leggende, è il punto d’incontro delle varie civiltà del Mediterraneo, è la pietra miliare del loro inizio o della loro  fine.

Fenicia, greca, bizantina, araba, normanna, sveva, angioina, aragonese, spagnola, sabauda, austriaca, borbonica, la Sicilia ha saputo, però, mantenere le proprie caratteristiche storiche e spirituali trasmettendole sino a noi nella sua lingua, nei suoi costumi, nella sua arte.

Una terra, quindi, frutto di fusione di storie, eventi, racconti che con il passare del tempo sono diventati luoghi, miti e leggende con il fascino tutto particolare del mistero e della straordinarietà e fonte di ispirazione per poeti e artisti.

Una terra ricca di tesori, le “truvature”, che trovano la propria origine nell’arrivo dei musulmani, quando i siciliani per non perdere i propri averi e non farseli rubare li nascosero sotto terra.

Oggi ne parliamo con l’architetto Domenico Gambino, nato a Campofelice di Fitalia ed ex dipendente del Comune di Palermo.

Gambino ha realizzato ad honorem i disegni dello stemma e del gonfalone del comune di Campofelice di Fitalia, approvati con decreto del Presidente della Repubblica nel 1984.

Da molti anni porta avanti una ricerca storico-antropologica sul proprio paese nativo.

Nel 2014 ha fondato il “Museo del Grano e della Civiltà contadina siciliana” di Campofelice di Fitalia.

È presidente dell’omonima Associazione Culturale.

Ha pubblicato: Vicende storiche e realtà odierna di Campofelice di Fitalia; Campofelice di Fitalia storia e cultura; Campofelice di Fitalia tra storia e tradizione; Latifondo e cerealicoltura nel territorio dell’ex stato di Fitalia; Salvare Fitalia – testi e immagini della mostra documentaria; A spese del popolo – I luoghi di culto, i sacerdoti e la devozione a Campofelice di Fitalia; L’ultimo risorgimento – Settembre 1866: la rivolta del Sette e Mezzo.

Ha collaborato con le riviste “Nuova Busambra” e “Il campanile di Campofelice di Fitalia” ed “Eco della Brigna”.

Fiore – Se fossero vere le leggende che le viscere della Sicilia nascondono all’interno di grotte invisibili immensi tesori, le “truvature”, che nella mitologia greca sono chiamate “plutoniche” con riferimento a Plutone, fratello di Giove e re del mondo sotterraneo, sarebbe la terra più ricca del mondo. Mi sbaglio?

Gambino – Assolutamente no!

Fiore – Tra queste leggende c’è la leggenda del Marabito, un monte meglio conosciuto come Pizzo di Casa, ricadente nell’interno della provincia di Palermo e ubicato nel territorio del comune di Mezzojuso.

Gambino –  Sì, ed è una leggenda narrata in diversi studi di folklore e di tradizioni, con qualche diversità di particolari ma con una trama sostanzialmente identica.

Fiore – Una leggenda, da quanto mi riferiscono comuni amici siciliani, uno per tutti Pippo Oddo, che  è stata oggetto di una tua ricerca…

Gambino – Già, una ricerca che ho pubblicato nel mio libro “Campofelice di Fitalia tra storia e tradizione” e che, raccogliendo la tua provocazione, cercherò di adattare in questo tuo “a tu per tu con… ”.

Fiore – Descrivimi la location della leggenda…

Gambino – Il viaggiatore che, trovandosi nell’entroterra palermitano, percorre la strada da Campofelice di Fitalia a Mezzojuso, avrà lo sguardo rapito dalla caratteristica montagna che domina il paesaggio circostante denominata Pizzo Marabito. Essa fu resa famosa in tutta la Sicilia, fin dalla notte dei tempi, dalla leggenda che narra d’immensi tesori nascosti nelle sue viscere. Alta 1.198 metri s.l.m. mostra sul lato di levante la sua forma conica con parete scoscesa composta da rocce calcaree. La base è cosparsa, per un tratto, dai numerosi massi che affiorano dal terreno e poi da un’affascinante radura resa misteriosa dall’eco che ivi risuona, detta dell’Acqua Amata per la presenza di una sorgente; sul versante di ponente il terreno mostra un declivio che corre verso Nord-Ovest. Dalla cima si può ammirare una veduta maestosa e spettacolare; lo sguardo può spaziare fino a spingersi al Mongibello o soffermarsi sui tanti paesini distesi nei dintorni.

Fiore – Ma c’è dell’altro…

Gambino – Sì! Accanto al Marabito, separato da una stretta vallata, c’è un altro interessante sito,  l’altrettanto famoso Pizzo di Case, sede in età greca e medievale di insediamenti umani con caratteristiche strategiche. La sommità è caratterizzata da due rilievi dai nomi assai suggestivi: a nord la Corona del Re, a sud la cima più elevata di Pizzo Castello alta 1.211 metri s.l.m., ove è visibile la struttura muraria quadrangolare di una probabile torre d’età medievale. La radura che unisce i due rilievi è cosparsa di cumuli di pietrame, di numerosi frammenti di tegole e di ceramiche. Materiali che ci portano indietro nel tempo a due diverse epoche: la prima tra il VI e V – IV sec. a.C., che testimoniano lo sviluppo del centro in età greca con la presenza di una necropoli sita sul declivio nord-ovest del Marabito; la seconda in età medievale tra XI e XIII secolo. Ivi è stato identificato con assoluta certezza il casale medievale di Hasu o Chasu che ebbe origine durante la colonizzazione araba della Sicilia. A difesa di questo insediamento sul versante che corre da nord-ovest, l’occhio esperto vi scorge le tracce di un muro di cinta. Idrisi, geografo di re Ruggero II, nella sua famosa geografia pubblicata nel 1154, descrivendo uno dei suoi itinerari dell’interno della Sicilia, dopo aver chiarito che “Tra Cefalà e Chasu sono due miglia franche; ed altre due simili da Chasu a Vicari”, spiega che “Chasu è casale nel cui territorio si fa di molte seminagioni, e si raccolgono varie specie di produzioni, massime granaglie e civaie”.

Fiore – I significati etimologici dei toponimi “marabito” e “hasu” ci riportano ad epoche lontane?

Gambino – La denominazione Marabito è ritenuta di origine araba e, secondo Salvatore Raccuglia, proviene da «maraah beth», vale a dire «la casa del pascolo»; in seguito il nome passò alla montagna. Diversa è l’opinione di Ciro Cutaia che, riprendendo uno scritto di Michele Amari, lega la suddetta denominazione al capo arabo Mirabetto o Morabito per la stringente assonanza col dialettale Marabbitu; sul Pizzo di Case, infatti, egli avrebbe stabilito il suo quartier generale dopo essersi ribellato ai normanni e terrorizzato, con le sue scorrerie, tutto il Val di Mazara. Il termine Hasu, invece, rimane di incerta origine ma potrebbe derivare dal greco ‘astu eos’, “la città posta in alto”; dalla forma dialettale di “Pizzu di Chasu” si passò in seguito, alla dizione “Pizzu di Casi” che bene esprime la presenza di case, ormai completamente distrutte.

Fiore – Le leggende trovano riscontro negli avvenimenti storici e…

Gambino – … nella realtà dei luoghi ove sono ambientate. Così avviene per fatti accaduti nell’area del Pizzo Marabito che il popolo ha trasformato con la sua fantasia in racconti leggendari. Pizzo di Case, dopo le frequentazioni in età arcaica indigena, tra il VII e VI sec. a. C., e greca, dal VI sec. al IV sec. a. C., e il probabile spopolamento in età romana, ritornò ed essere frequentato in epoca bizantina; una comunità di musulmani vi si stabilì sul finire del X secolo e la sua presenza si protrasse per lungo tempo. Con i normanni, Hasu, il paese posto sul monte, prosperò e, nel 1093, per decisione del re Ruggero I fu elevato a centro amministrativo della terza prebenda assegnata alla diocesi della Chiesa di Agrigento alle cui dipendenze erano i casali di Fitalia, Guddemi e Mezzojuso. L’arrivo in Sicilia degli Svevi, nuovi dominatori, determinò una rottura degli equilibri sociali; gli arabi dell’isola non andarono d’accordo con Federico II e una feroce repressione fu scatenata contro di loro. I musulmani guidati da Mirabetto si radunarono sulle montagne e si ribellarono all’imperatore. Sconfitti dopo una sanguinosa lotta, furono costretti ad abbandonare le montagne e molti allontanati dalla Sicilia. Siamo tra il 1220 e il 1223. Fu in quest’epoca che gli abitanti di Hasu dovettero abbandonare il castelletto, le loro dimore e stabilirsi nelle vallate.

Fiore – Quindi, caro architetto, la leggenda del Marabito è da porre in relazione ai fatti storici e alle vicende umane della gente che abitò Pizzo di Case.

Gambino – Sì!  Il popolo, infatti, avvezzo a sognare ricchezze grandissime, al racconto storico aggiunse la sua fantasia e quindi immaginò che gli arabi, costretti ad abbandonare le loro abitazioni, abbiano nascosto gli immensi tesori da loro posseduti nelle viscere del Marabito. La stessa montagna, però, sembra essere complice della leggenda perché gli antri del Marabito esistono davvero e si conoscono due vie d’accesso. La prima cavità è la famosa «grutta ri l’Areddara», cioè «la grotta dell’Edera», così chiamata perché ivi la pianta cresce spontanea e si radica attorno all’imboccatura: si trova al centro della montagna in un posto di difficile accesso che si raggiunge con difficoltà seguendo un percorso molto ripido. L’altra entrata, più piccola, si trova più in basso ed è chiamata la «grutta ru Cristallu», ovvero «la grotta del Cristallo» e questo nome indica gli esemplari di grossi cristalli e di quarzo che si trovano tra le fenditure delle rocce.

Fiore – Così incominciano a fiorire i racconti di più varia natura e fantasia…

Gambino – Già! Eccone uno… In tempi a noi molto remoti i Saraceni, o Arabi che dir si voglia, avevano un castello sulla cima del Pizzo di Case a difesa delle loro abitazioni perché temevano le incursioni dei nemici; ciò malgrado un giorno, mentre erano intenti al lavoro, furono assaltati e le case distrutte.  Fu così che essi, prima di abbandonare il paese, raccolsero tutti i loro immensi tesori e li nascosero nelle caverne del Monte Marabito consegnandoli in custodia ai diavoli, che da allora zelanti li custodiscono. Il Marabito, difatti, al suo interno è pieno di caverne e le pareti sono tutte coperte d’oro e vi si trovano in abbondanza pietre preziose e diamanti d’ogni specie. Vi si trova, anche, un gran castello dorato dimora di Marabella, un’alta e nobile donna, figlia di un potente re che ivi regna da regina, dividendo  il trono con la sorella Maria Costanza. Il castello è stracolmo di innumerevoli gioie ed è protetto da due mori giganteschi e da un gran cerbero che sta a guardia della porta d’entrata per impedire l’accesso ai profani. Da tempo immemorabile molte persone hanno avuto l’audacia di introdurli nelle caverne del Marabito ed hanno avuto anche la fortuna di vedere con i propri occhi gli immensi spazi ripieni di verghe, di monete d’oro, di vasi preziosissime e di gioie. A loro è stato anche permesso di maneggiare gli oggetti preziosi, di divertirsi a giocare con delle bocce d’oro e perfino di riempire i sacchi e le tasche di monete d’oro e altri gioielli, di sognare grandi ricchezze per cambiare la loro misera esistenza. I demoni, però, non hanno permesso mai a nessuno di portar via l’oggetto più minuto e gli invasori non hanno trovato l’uscita fin quando hanno trattenuto addosso anche la moneta più piccola. Eppure, non tutto l’oro è sotto la stretta sorveglianza dei diavoli. È  notorio che anche i dintorni della montagna nascondono ineguagliabili tesori, ma nessuno sa dove si trovano con precisione: per trovarli bisogna scavare e ancora scavare ed essere baciati dalla fortuna. La quantità d’oro nascosto è tale che anche l’erba che vi cresce ne è impregnata e i pastori, che in quella contrada portano le loro greggi a pascolare, trovano dorati i denti del loro bestiame.

Fiore – A questo racconto si aggiunge quello del cane… me ne vuoi parlare?

Gambino – Perché no!

Alcuni diligenti individui, a conoscenza che altri avevano visto con i propri occhi i tesori custoditi negli antri della montagna e consapevoli dell’impossibilità di poter trafugare un qualsiasi piccolo oggetto di valore, si persuasero che, per far ciò, l’unico modo fosse di escogitare un tranello per trarre in inganno i diavoli guardiani. L’idea non tardò ad arrivare e, messo a punto il piano, un giorno si avviarono verso la montagna. Raggiunta l’imboccatura, entrarono nella grotta, videro l’immensa ricchezza e toccarono i gioielli con le proprie mani. Avevano portato anche un cane e, nascoste in mezzo a pezzi di pane alcune monete, gliele diedero in pasto. Poi lo legarono con una lunga e robusta corda ed uscirono tranquillamente all’aperto. Ma quando dall’alto tirarono la corda, questa si ruppe; allora chiamarono il cane con il consueto fischio e attesero a lungo il suo ritorno, ma l’animale uscì fuori soltanto il giorno dopo quando, terminata la lunga digestione, ebbe evacuato tutte le monete d’oro che gli avevano fatto inghiottire.

Fiore – E siamo alla Fiera…

Gambino – Ogni sette anni nella pianura che si estende alle falde del Pizzo Marabito si tiene una fiera. Essa ha luogo verso la mezzanotte ed è resa grandiosa dalle luminarie, dagli spettacoli di canti e di balli e dai giochi pirotecnici. È frequentata da numerosi mercanti che nelle loro bancarelle vendono animali e merce d’ogni specie. Per potere vedere la fiera occorre, però, essere assolutamente ignari della sua esistenza, tanto che chiunque fosse a conoscenza dell’avvenimento e si recasse nei dintorni del luogo, o vi passasse anche per caso, non vedrebbe proprio nulla.

Fiore – Purissima fantasia!

Gambino – Direi, assoluta e surreale immaginazione…

Fiore – E veniamo al vitellino d’oro…

Gambino – Si racconta che un contadino di Campofelice di Fitalia fosse uscito dalla sua casa quand’era ancora notte per andare nel suo podere, lontano dal paese, per trovarsi così sul posto di lavoro appena fatto giorno. Cammina,  cammina, perviene nei pressi del Marabito e vede con sua grande meraviglia che, proprio ai piedi della montagna, si stava svolgendo una grande festa con una illuminazione bellissima e tantissime bancarelle con un gran vociare di gente e mercanti che vendevano roba di ogni genere in gran quantità. Alla fine assistette allo sparo di fuochi d’artificio. Colto da forte spavento stava per scappar via quando alcuni mercanti lo chiamarono e gli offrirono a un misero prezzo quanto avevano di meglio: un bue al costo di un soldo, un agnellino per una grana. Il contadino, che non possedeva proprio nulla, si trovò nella condizione di non poter acquistare niente e dovette rifiutare ogni offerta. Un mercante allora gli rovistò con attenzione le tasche e con sua meraviglia gli trovò una monetina che trattenne in cambio di un vitellino. Il brav’uomo, stupefatto di tutto ciò che stava accadendo non trovò più la forza per proseguire e ritornò a casa con l’animale che si trasformò in un mucchio d’oro che lo fece diventar cieco.

Fiore – E non finisce qui…

Gambino – Sì, infatti altre persone, ignare dell’esistenza della fiera settennale, hanno potuto assistere all’evento. Si racconta che un povero pastore, trovandosi di notte a passare nei pressi della montagna, assistette alla singolare fiera e poté aggirarsi tra le bancarelle dove erano esposte merci in gran quantità e frutta bellissima. Da un mercante ricevette in dono due arance che conservò nella saccoccia. Quando tornò a casa le regalò alla sua padrona, la quale, accorgendosi che erano d’oro, le trattenne e ricambiò l’ignaro pastore con pochi spiccioli.

Fiore – Arrivano i cercatori d’oro…

Gambino – Com’è noto  il sottosuolo dei dintorni del Marabito è cosparso d’oro. Un giorno alcuni contadini, che avevano individuato il luogo, si munirono di vanghe e cominciarono a scavare; dopo aver scavato a lungo e persa quasi ogni speranza, un colpo di zappa diede un cupo rintocco. Procedettero, quindi, con molta cautela per liberare l’oggetto misterioso dalla terra e dalle pietre e videro apparire una grande pentola di creta. Gli uomini trasalirono nella consapevolezza che il tesoro stava proprio lì con assoluta certezza e pensarono d’essere diventati ricchi: in fretta liberarono la pentola e tolsero il coperchio, ma provarono una gran delusione. Esso conteneva “scorci ri vavaluceddi”, ovvero gusci di lumache. I demoni, avendo visto scoperto il loro tesoro, lo avevano sostituito con quei rifiuti.

Fiore – Altre narrazioni?

Gambino – Si narra ancora che un contadino di Campofelice di Fitalia, tra i primi abitanti del paese, un certo Antonino Ruggero, si ritrovò con un mucchio d’oro tra le mani, ma per sua sventura si fece sfuggire la fortuna. Lui stesso raccontava che nel mese di Novembre s’era recato nel suo podere del Marabito per arare il terreno quando, dopo qualche ora di lavoro, affaticato per aver spinto la pariglia di buoi perché il terreno era compatto, sentì una voce misteriosa provenire dalla montagna che lo avvertiva: “Stai attento, che il vomero del tuo aratro sta per fare affiorare l’oro della terra”. Il contadino trasalì e nel medesimo istante il vomero sprofondò nel terreno e rimosse l’oro. Si udì il tintinnio del prezioso metallo e dalla terra arata affiorò una grande quantità d’oro. In un primo momento il pover’uomo rimase immobile a contemplare l’inestimabile ricchezza, ma, subito dopo lo smarrimento, si affrettò a prendere le bisacce e a riempirle d’oro. Gli animali spaventati dal tintinnio e dal luccichio si imbizzarrirono e si diedero a correre trascinandosi l’aratro che si ruppe. Il contadino per istinto corse per recuperare i buoi ma, quando tornò nel luogo della truvatura, con sua amara sorpresa dovette constatare che l’oro si era trasformato in carbone. Egli non trovò più la forza per continuare a lavorare e, ritornato in paese, raccontò quanto gli era successo a parenti e amici. Lo sfortunato contadino non solo fu rimproverato dalla famiglia, ma fu anche deriso dai compaesani: per non perdere una pariglia di buoi si lasciò sfuggire l’occasione di diventar ricco.

Fiore – E se dovesse cadere la montagna?

Gambino – Si è tramandata da padre in figlio la profezia della caduta del Marabito. Il popolo sa bene che, se dovesse cadere la montagna di Marabito, tutti i tesori  nascosti nelle sue viscere affiorerebbero, ma il crollo provocherebbe la distruzione di sette paesi, i più vicini che si ammirano dalla sua sommità: Campofelice di Fitalia, Godrano, Cefalà Diana, Villafrati, Baucina, Vicari e Caccamo. Si salverebbe Mezzojuso perché rimane nascosto dalla cima del monte.

Fiore – La leggenda e i racconti che mi hai narrato si soffermano sugli antri che conterrebbe il Marabito. Ma, se esistono davvero le caverne del Marabito (Grotte dell’Areddara e di Cristallo), è possibile che vi si trovi nascosto un tesoro?

Gambino – Chissà!!! Fino ad alcuni decenni addietro alla leggenda si dava molto credito e per di più questa era alimentata da fatti reali che parlavano di possibili giacimenti di metalli nei suoi dintorni. Per questo motivo molte persone andarono in cerca di fortuna… a Campofelice sono di dominio popolare i racconti che parlano delle avventure di intraprendenti uomini che hanno perlustrato la zona e di altri che, con mezzi inadeguati, hanno tentato di introdursi nelle caverne della montagna. Risale alla prima metà dell’Ottocento la notizia che fece molto discutere della “scoperta di una miniera di carbon fossile presso Mezzojuso” su un “monte” che si presume fosse il Marabito. Il materiale trovato fu sottoposto all’esame del chimico Gioacchino Romeo di Palermo, che vi trovò “scisto bituminoso”, ma che nel complesso giudicò “di cattiva qualità e pressoché inutile”. Nel 1914 la ricerca del carbon fossile ritornò d’attualità e il giornale «L’Ora» pubblicò una corrispondenza dal titolo «Un giacimento di carbon fossile a Campofelice di Fitalia?»  Il giornalista non indica la contrada, molto probabilmente si riferisce al Marabito, ma ciò poco importa per dimostrare che in quel tempo il popolo era realmente attratto dal sogno di trovare la ricchezza nel sottosuolo del territorio. La notizia, difatti, scaturiva dall’intraprendenza di un campofelicese, Salvatore Sangiorgio, che di sua iniziativa aveva cominciato degli scavi e aveva inviato reperti del materiale ritrovato al prof. Filippo Maggiacomo, direttore del laboratorio chimico di vigilanza igienica per la provincia di Girgenti. Questi, offrendosi di eseguire l’analisi chimica del minerale, asserì che i reperti esaminati contenevano carbonio utile per il gas illuminante. Il risultato delle analisi non quantitative fu incoraggiante e nell’aprile del 1917 un “ingegnere mineralista” venne inviato a Campofelice “per procedere a una visita nei luoghi” dove si credeva vi fosse del combustibile solido… ma la ricerca non ebbe più seguito. Nella prima metà del secolo scorso fu u zzu Liboriu che, con il pallino della scoperta, spesso si recava al Marabito alla ricerca dell’oro e, quando ritornava in paese con reperti di roccia e scisti bituminosi, li mostrava ai compaesani per suscitarne la curiosità. Dopo di lui furono u zzu Brasi e, poi, u zzu Ninu che, con una buona dose di coraggio, si fecero calare con una fune all’interno della grotta del leggendario monte. Un’esplorazione della grotta dell’Edera fu tentata con qualche risultato intorno al 1880 da una comitiva di studenti universitari composta da Cocò Schirò e dai futuri professori Salvatore Raccuglia, Felice Cuccia e Mimì Di Pietra, che non ancora ventenni solevano fare “frequenti ascensioni del Marabito e di Pizzo di Casi”. Dopo alcuni decenni, nel 1910, lo stesso Raccuglia, parlando della grotta del Marabito nel suo scritto «I tesori di Marabito», dirà che essa è costituita da una grande cripta che si prolunga verso il basso per via di un condotto ripidissimo, di cui non poterono vedere la fine per mancanza degli attrezzi necessari. Ma l’esplorazione più significativa delle grotte del Marabito di cui si ha notizia fu quella compiuta nel 1925 da Domenico Annino che la rese pubblica con un’affascinante descrizione sul «Giornale di Sicilia», sotto il titolo: «Petrolio, rame, argento, oro in Sicilia». L’Annino, che era alla ricerca di combustibile solido nella montagna del Marabito, fu incuriosito dal tipo di terreno dove, a seguito di alcuni pozzi scavati, trovò una buona quantità di scisto bituminoso, un fossile dell’era carbonifera, il calamitos, e “immense manifestazioni di ossido di rame esistente per una grande estensione” che lo indussero a ricercare il carbon fossile e il metallo. Egli, peraltro, aveva appreso da Felice Cuccia della sua tentata esplorazione compiuta, come già ti ho detto prima  intorno al 1880 e dell’esistenza di “un’ampia caverna con due buchi: uno comunicante con altre due caverne, l’altro, per mezzo di una piccola galleria, comunicante con un pozzo”. L’Annino, da questa informazione, deducendo che la caverna “fosse stata, in tempi preistorici, una miniera” decise di intraprendere un’esplorazione. Si munì “di corde, lampade ed altri arnesi di alpinismo e dopo una forte propaganda» riuscì a raccogliere “un buon numero di giovani ardimentosi” e stabilì il giorno dell’escursione. Riferisce l’Annino: “Solo cinque dei facenti parte della comitiva arrivammo al luogo destinato. A mezzo di corde ci facemmo porgere le lampade, un piccone e altre corde e c’introducemmo nella grotta. Le tre caverne corrispondevano esattamente alla descrizione fattane dal vecchio professore; ritornati alla prima cercammo il pozzo. La piccola galleria conducente ad esso, dopo cinquant’anni, per le continue incrostazioni di carbonato di calcio era divenuta un buco dal quale passammo a stento. Scesi in fondo al pozzo a circa dieci metri di profondità e alla base di esso e seguii un piano inclinato anch’esso di metri dieci di lunghezza. In fondo al piano inclinato notai che vi era un altro pozzo di circa dieci metri di profondità ed a questo si seguiva un piano inclinato come il primo. Alla base di questo altro pozzo ed un piano inclinato ancora e quasi sempre delle stesse dimensioni. Alla base di questa caverna in piano inclinato, si presentò innanzi al nostro sguardo uno spettacolo magnifico; una immensità di stalattite e stalagmite di carbonato di calcio, in parte cristallino e in parte fluido, di colorito bianco, che formavano quanto di più fantastico si possa immaginare. Un grande blocco staccato dal tetto, aveva coperto in parte un altro pozzo sottostante. Dopo essermi accertato della profondità di esso vi scesi e notai che la sua conformazione era la stessa dei precedenti, con la sola differenza che invece d’essere seguito da un piano inclinato era seguito, dopo una piazzuola, da un altro pozzo. Notai ancora che dovevano continuare una serie di pozzi e piani inclinati per il fatto che, lasciatovi cadere un masso, lo sentii rotolare con fracasso e allontanandosi il rumore prodotto da esso si affievoliva sempre più ed invano attesi l’urto d’arrivo. Intanto i compagni cominciarono a spazientirsi e, col pretesto che la luce veniva a mancare, mi indussero a tornare indietro”.

Fiore – Affascinante davvero… forza, il seguito!

Gambino – Domenico Annino, confortato dal ritrovamento di strati di scisti bituminosi, di carbon fossile, litantrac, e di “metallo di rame argentifero che, analizzato, pare contenga delle particelle d’oro” e dal risultato dell’esplorazione delle grotte che lo indussero a credere ancor di più che si trattasse di un’antica miniera, si convinse della grande e reale ricchezza del Marabito, tanto da rivolgere un pubblico appello: “Il governo pensi a far esplorare le innumerevoli grotte esistenti in Sicilia che, mentre per mezzo della tradizione le conosciamo come grotte incantate, potrebbero invece essere di guida per portarci alla scoperta di ricchi minerali”. Non risulta che a seguito dell’appello siano state compiute esplorazioni di carattere scientifico. Si ha solo notizia che gli speleologi del Club Alpino Italiano negli anni Sessanta del secolo scorso, come riferisce Ignazio Gattuso, hanno raggiunto la grotta, ma non hanno trovato l’andito che immette nelle gallerie. Evidentemente le incrostazioni di carbonato di calcio avevano ostruito il buco dal quale l’Annino disse “passammo a stento”. La testimonianza dell’Annino, che riferisce di aver visto con i propri occhi gli antri della montagna con una immensità di stalattiti e stalagmiti, rende facile e legittimo il collegamento con altre grotte che sono state scoperte casualmente da fortunati speleologi e rese famose per le loro straordinarie bellezze naturali. Le grotte di Frasassi nelle Marche e di Castellana in Puglia sono certamente gli esempi più celebri in Italia in quanto visitate giornalmente da centinaia di turisti. Esse sono fonte di vera ricchezza prodotta dalla stupenda bellezza di stalattiti e stalagmiti di svariate forme che, come nella leggenda, sembrano gioielli e davanti ai quali si rimane, oltremodo, incantati.

Fiore – Sarà questa la vera ricchezza che nasconde il Marabito?

Gambino – Scrive ancora Domenico Annino in riferimento alla montagna del Marabito: “Un signore degno di fede dice che, essendo residente in America, un giorno si trovò nello studio di uno scienziato per avervi accompagnato un suo amico. Mentre questi conferiva con l’americano, lui rimasto in salotto, si mise ad osservare la carta geografica, forse geologica, della Sicilia che si trovava attaccata al muro. Attirò la sua attenzione un segno particolare fatto vicino al suo paese e, poco dopo, domandò al professore il perché di quel segno. Gli fu risposto: voi essere siciliano? Questa montagna essere più ricca d’Europa”. 

Fiore – Grazie, caro Domenico Gambino, per questa pagina di storia e leggenda siciliana…

Gambino – Grazie a te, a voi di ScrepMagazine, per avermi ospitato sul vostro blog e tanti auguri per queste festività natalizie.

Domenico Gambino

e la leggenda del Marabito

  a cura di Vincenzo Fiore

 P.S. Si ringraziano gli amici di Domenico Gambino per le foto a corredo del presente “a tu per tu con…”

Clicca sul link qui sotto per leggere il mio articolo precedente:

Previous articleForse Natale
Next articleIl Centro in Italia? Esiste solo al Luna Park…
Vincenzo Fiore
Sono Vincenzo Fiore, nato a Mariotto, borgo in provincia di Bari, il 10 dicembre 1948. Vivo tra Roma, dove risiedo, e Mariotto. Sposato con un figlio. Ho conseguito la maturità classica presso il liceo classico di Molfetta, mi sono laureato in Lettere Moderne presso l’Università di Bari con una tesi sullo scrittore peruviano, Carlos Castaneda. Dal 1982 sono iscritto all’Ordine dei Giornalisti, elenco Pubblicisti. Amo la Politica che mi ha visto fortemente e attivamente impegnato anche con incarichi nazionali, amo organizzare eventi, presentazioni di libri, estemporanee di pittura. Mi appassiona l’agricoltura e il mondo contadino. Amo stare tra la gente e con la gente, mi piace interpretare la realtà nelle sue profondità più nascoste. Amo definirmi uno degli ultimi romantici, che guarda “oltre” per cercare l’infinito e ricamare la speranza sulla tela del vivere, in quell’intreccio di passioni, profumi, gioie, dolori e ricordi che formano il tempo della vita. Nel novembre 2017 ho dato alle stampe la mia prima raccolta di pensieri, “inchiostro d’anima”; ho scritto alcune prefazioni e note critiche per libri di poesie. Sono socio di Accademia e scrivo per SCREPMagazine.

LEAVE A REPLY

Please enter your comment!
Please enter your name here