“Gli occhi di Iona corrono ansiosi e pieni di sofferenza sulle frotte di gente che vanno su e giù ai due lati della via: non si troverà fra quelle migliaia di persone almeno uno che lo ascolti?”
“Angoscia”, Anton Cechov
Al calar della sera i lampioni, lungo i viali di San Pietroburgo, sono accesi.
E illuminano, in maniera disordinata, i fiocchi di neve che frettolosamente si depositano sulla strada, sui tetti, sulle spalle della gente.
Il vetturino Iona Potapov insieme al suo “cavalluccio” sono quasi completamente bianchi. Fermi, in attesa.
Sono usciti dalla rimessa da qualche ora, ma ancora non hanno fatto una corsa. L’atmosfera è silenziosa, l’aria è immobile.
Iona è immerso nei suoi pensieri, mentre la gente si affaccenda frettolosamente nelle strade.
Ad un tratto Iona viene bruscamente riportato alla realtà da un militare che, con fare prepotente, gli ordina di portarlo subito alla Vyborgskaja.
Durante la corsa il militare osserva la gente distratta, che sembra voglia intenzionalmente finire sotto il cavallo. “Che bricconi son tutti”, dice il militare. Iona si volta a guardare il passeggero, vorrebbe parlargli, ma gli esce appena un sibilo.
Prende coraggio e replica “ Gli è, signore, che…in questa settimana mi è morto il figlio.“
“Di cosa” risponde il militare? “E chi lo sa! Dev’essere di febbre acuta…tre giorni stette all’ospedale e morì…E’ il voler di Dio”, sospira Iona.
Il militare gli dice di stare attento alla strada. E di sbrigarsi, che con questo passo arriveranno domani.
Iona a quel punto, riprende il controllo della vettura, si accorge che il passeggero ha chiuso gli occhi, e ha smesso di ascoltarlo.
Arrivati a destinazione, il militare scende e Iona resta ad attendere un altro paio d’ore sotto la neve che viene giù in maniera copiosa.
Salgono tre uomini e lo iniziano a sbeffeggiare. Lo prendono in giro, per il berretto e per la lentezza. Ad un tratto uno dei tre inizia a tossire, e Iona in un momento di pausa si volta verso i passeggeri e dice anche a loro che, da pochi giorni, è morto suo figlio.
Ma anche questa volta non viene ascoltato. Anzi i tre continuano a sbeffeggiarlo. Gli ordinano di sbrigarsi. E, per farsi sentire, gli assestano anche uno scapaccione dietro la nuca.
Uno del gruppo gli chiede se ha moglie. Iona risponde “ Adesso non ho più che una moglie: l’umida terra…ih-oh-oh… La tomba cioè!…Il figlio, ecco, è morto, e io son vivo…Cosa bizzarra, la morte ha sbagliato porta…Invece di venir da me, lei da mio figlio…”
Iona è intenzionato a raccontargli cosa è accaduto al figliolo, ma i tre, entusiasti di essere arrivati a destinazione, lo ignorano.
Iona è solo e, lentamente, l’angoscia si ripresenta.
Il suo sguardo, sofferente, rincorre le persone che si muovono velocemente nella strada. Nessuno sembra accorgersi di lui e del suo dolore.
L’angoscia è devastante, immensa. Ma ha trovato rifugio in un corpo, il suo.
Iona prova ad avvicinarsi ad un portiere per parlargli, ma anche lui, come i precedenti, lo ignora.
Il dolore di Iona si è fatto troppo acuto, e così decide di tornare alla rimessa.
Ha guadagnato poco, non ha neanche il denaro per acquistare l’avena con cui sfamare il cavallo. Nella rimessa, fra gente alticcia e addormentata, Iona incrocia un giovane vetturino mezzo assonnato che gli chiede un bicchiere d’acqua. Iona gli versa da bere e gli dice che il figlio è morto cercando di osservare l’effetto che tale notizia avrebbe suscitato. Ma il giovane si è già riaddormentato.
Iona ha bisogno di parlare dell’accaduto, è passata una settimana e non ne ha ancora parlato con nessuno.
“Occorre parlarne con ordine, con pause…Bisogna raccontare come si ammalò il figlio, quanto soffrì, quel che disse prima di morire, come è morto…”
“L’ascoltatore deve fare esclamazioni, sospiri, commenti…E parlar con donne è anche meglio. Quelle sono sciocche, sì, ma piangono per due parole.”
Si alza e prima di andare a letto va verso la scuderia, dove sta il cavallo.
Osserva gli occhi del cavallo mentre mangia il fieno, sono luminosi.
Iona gli dice che è troppo vecchio per continuare a fare il vetturino, al posto suo dovrebbe esserci il figlio, ma non c’è più…da un momento all’altro è morto. Continua dicendogli che lei è la madre di un puledrino…e che se il piccolo dovesse morire prematuramente anche per lei sarebbe una pena.
“Il cavalluccio mastica, ascolta e respira sulle mani del suo padrone…
Iona si lascia trascinare e gli racconta ogni cosa…”
Iona ha perso il figlio da una settimana e non riesce a condividere con nessuno il suo dolore.
Viene considerato un vetturino goffo e maldestro, invece è un uomo angosciato per la perdita del figlio.
Ha voglia di gridare al mondo ciò che sente, per alleviare, solo per pochi minuti, quella sofferenza che prova. O per ricevere una parola di conforto, o semplicemente per sentirsi ascoltato. Ma Iona è solo. E si sente solo.
Invano cercherà tra la folla uno sguardo attento, che l’aiuti a dare un senso alla sua esperienza di perdita, uno sguardo premuroso e silenzioso che troverà nel solo essere che gli è accanto: il suo cavallo.
Spesso si è distratti da mille pensieri. La quotidianità ci risucchia in un vortice in cui il tempo scorre, e noi insieme a lui. E’ un tempo che ci spinge continuamente a un fare caotico e spesso autoreferenziale, che non concede soste.
Perché fermarsi è impegnativo, ci costringe a pensare, a riflettere, ad osservare. E ad ascoltare.
Saper ascoltare significa accogliere non solo la nostra interiorità , ma anche quella dell’altro. Come dice Iona, nell’ascolto non si scambiano solo informazioni, ma storie, vissuti, esperienze ed emozioni.
L’ascolto è fatto di comprensione, attenzione, interesse verso se stessi e verso l’altro.
Soprattutto in un periodo così pieno d’incertezze, privo di punti di riferimento, è un bene prendersi del tempo per se stessi e per gli altri.
Il momento dell’ascolto potrebbe rivelarsi un’esperienza arricchente sotto ogni punto di vista, un momento in cui l’esperienza di sé si apre all’incontro con l’altro.
Doniamoci, quindi, ogni giorno, uno spazio per fermarci, per fare spazio alle parole e ai sentimenti dell’altro, anche se a volte sarebbe più comodo evitarli.
Prendiamo il coraggio di cogliere quegli sguardi, e di non temere la paura e la solitudine.
[…] “A chi dirò la mia tristezza?” […]